È la canzone simbolo della Liberazione, anche se dopo settant’anni non è stata ancora liberata dalle polemiche. Brano politico per antonomasia, anche nell’accezione più ampia e nobile del termine, Bella Ciao resta uno dei più celebri canti italiani in assoluto.
E se Laura Pausini ha dato scandalo quando si è rifiutata di cantarla in una trasmissione televisiva spagnola, a interpretarla in passato sono stati nomi come Yves Montand, Goran Bregovic, Tom Waits ma anche la figlia di Che Guevara.
È stata adottata dagli indipendentisti catalani e dai giornalisti di Charlie Hebdo, dai combattenti curdi in Siria, dai guerriglieri sudamericani e dai manifestanti greci, turchi e iraniani, tradotta addirittura in cinese e – con il titolo di Do it now – è diventata l’inno del movimento ambientalista Fridays for Future.
Da quando poi è stata scelta dalla Resistenza ucraina contro l’invasione russa, Bella Ciao, in qualche modo, è tornata a casa: perché è stato proprio un ucraino a scriverne la primissima versione, oltre un secolo fa.
Quel che è certo è che – paradossalmente – il più celebre canto partigiano non è affatto un canto partigiano. Come inno della Resistenza, infatti, Bella Ciao è semplicemente un falso storico, una tradizione inventata negli anni Sessanta e divenuta una leggenda che ormai molti faticano a mettere in discussione.
In compenso la sua vera storia è così ricca e complessa da rendere questa celebre ballata molto più affascinante e assai meno divisiva di quanto si possa pensare.
Lungi dall’essere un canto “di parte”, infatti, la canzone raccoglie tradizioni così diverse e variegate da rappresentare una vera e propria summa di musica popolare, che spazia dalle mondine ai giochi dell’infanzia, da canti d’amore a melodie klezmer.
Sembra impossibile a credersi, ma fino al 1964 Bella Ciao non la conosceva nessuno. Quell’anno fu presentata al Festival di Spoleto e incisa da Giorgio Gaber raggiungendo un’immediata popolarità e diventando in pochi anni il più celebre canto partigiano.
“In realtà in una sua qualche forma, probabilmente lo è stato davvero”, spiega Lucilla Galeazzi, tra le più importanti esponenti della musica folk a livello internazionale e vincitrice – tra l’altro – della Targa Tenco per l’album Amore e acciaio. “Il punto è che dai partigiani viene cantato pochissimo. Il vero inno della Resistenza era un altro: Fischia il vento“. Riadattato da una celebre canzone russa, il canto comunista per eccellenza invita a “Conquistare la rossa primavera. Dove sorge il sol dell’avvenir”, e ha dato il titolo, tra l’altro, al film di Nanni Moretti, incentrato – non a caso – su un comunista in crisi durante l’invasione dell’Ungheria.
“Le primissime, ancorché dubbie, testimonianze di Bella Ciao risalgono al febbraio del 1945, pochi mesi prima della fine della guerra”, spiega Galeazzi: “Probabilmente qualche partigiano lo ha cantato, ma sicuramente in quel periodo non diventa assolutamente un canto di massa”.
Non c’è infatti traccia di Bella Ciao nelle raccolte di canti partigiani, né viene menzionato in alcun documento della Resistenza. “Qualche anno dopo – continua Galeazzi – nel 1948 a Berlino viene organizzato il primo festival della gioventù comunista liberata dal giogo nazi-fascista. Lì si presenta un gruppo di studenti italiani che canta Bella Ciao“.
La canzone diventa dunque celebre come canto partigiano, tanto da essere proposto come inno ufficiale della festa del 25 Aprile. Il suo successo è dovuto anche al fatto che, non avendo – a differenza di altri canti della Resistenza – alcun riferimento ideologico, viene fatto proprio da tutti i partiti antifascisti.
A rimetterne in discussione l’origine, però, sono le dichiarazioni di una mondina divenuta cantante folk: Giovanna Daffini, che dichiara di aver imparato la canzone in una risaia negli anni Trenta. “La versione delle mondine – spiega Galeazzi – oltre ad avere un testo completamente diverso, è per forza di cose anche molto più lenta. L’Unità intervistò Daffini e uscì con la clamorosa notizia, ma una settimana dopo arrivò in redazione la lettera di un ex mondino, che dichiarò di aver scritto lui quel testo, nel 1949, insegnandolo poi alle sue colleghe”.
Il dibattito sulla primogenitura è ancora aperto: ricostruire con esattezza le origini di Bella Ciao è praticamente impossibile, visto anche che la versione mondina e quella partigiana debuttano contemporaneamente sulla scena pubblica negli anni Sessanta.
“La verità – continua Galeazzi – è che entrambe le versioni oggi conosciute derivano da canti molto più antichi”. Sono almeno quattro le fonti rinvenute: il testo è la rielaborazione di un canto narrativo francese che risale addirittura al XV secolo e che è documentato in Italia già nel 1888, in una raccolta di canti popolari del Piemonte, con il titolo di Fior di tomba.
“La canzone parla di una ragazza che dice: ‘Mamma, papà, stamattina mi sono svegliata, e affacciata alla finestra ho visto il mio amore che passava. Papà, mamma, scavatemi una fossa, ma così grande che io possa entrarci con il mio amore. E sopra metteteci un bel fiore, e quando la gente passerà dirà ‘questo è il fiore della Rosina, morta per amore’”.
La musica deriva invece da un canto per l’infanzia, sempre del nord Italia: “Veniva insegnato ai bambini per coordinare i movimenti e insegnargli a battere le mani e recitava così: ‘La me nòna l’è vecchiarella la me fa ciau, la me dis ciau, la me fa ciau ciau ciau’”.
Ma questa incredibile storia non è ancora finita: “Qualche anno fa un giornalista italiano a Parigi, in una bancarella sul Lungo Senna, ha comprato per pochi euro un cd di canti yiddish degli anni Venti e ci ha trovato dentro un brano dal quale Bella Ciao ha mutuato la sua parte iniziale”. Si tratta di Koilen, registrata nel 1919 a New York da un fisarmonicista klezmer di origini ucraine: Mishka Ziganoff.
La storia di Bella Ciao, dunque, inizia in Ucraina come musica klezmer per tornarci un secolo dopo come inno di resistenza antirussa; un canto di gioco dei bambini piemontesi che diventa l’inno ambientalista dei ragazzi di Greta Thunberg: un canto d’amore e di lavoro capace di girare il mondo intero raccogliendo istanze, speranze, ansie di riscatto e unendo popoli e culture sotto la bandiera della libertà.
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