La critica cinematografica non è nient’altro che una miscela di gusti e opinioni che dipendono da tantissimi aspetti, alcune volte dettati dalla forma mentis, altre dall’istinto caratteriale, comunque sia altamente soggettivi. David Fincher è un regista divisivo, che ha avuto una carriera particolare, iniziata con il botto di Alien³, esplosa definitivamente con titoli proverbialmente cult come Seven e Fight Club, e proseguita, via via, in calando, arrivando ad arrestarsi completamente sei anni fa.
Il suo lavoro migliore, a mio avviso, almeno fino a stamattina, è stato The Game, una delle pellicole più sottovalutate della storia, ben diretta, ben recitata e sostenuta da una sceneggiatura meravigliosa firmata dal versatile duo Brancato-Ferris. Ma stamattina, appunto, complice il clima da lupi e un dolce tepore salottiero, ho avuto il tempo di godermi il ritorno sulla ribalta di Fincher, che si è riproposto al pubblico con il potente e suggestivo Mank, raffinata biografia che racconta alcuni frammenti della vita dello sceneggiatore americano Herman J.Mankiewicz, detto Mank, vincitore del premio Oscar per avere scritto il capolavoro di Orson Welles Quarto Potere, e fratello di Joseph, che diresse lo sguardo di Bette Davis in Eva contro Eva. Ad interpretare il protagonista è stato chiamato il geniale e versatile Gary Oldman, che riesce con il solito enorme carisma a rappresentare il demone oscuro dell’alcolismo e del vizio dentro a un uomo d’animo gentile, anticonvenzionale e smisuratamente colto e intelligente.
Mank è uno di quei personaggi sui quali scrivere un film è scontato. Istrionico, divertente, disperatamente maudit, vive i suoi giorni con intensità minuto dopo minuto, senza regalare nulla al compromesso. Quello che si intuisce fin da subito è la scarsa empatia con Welles, qui privato di qualsiasi canonico alone di onnipotenza, ma antipatico e arrogante, narcisista e pompato da un ego sproporzionato. Il pretesto narrativo è dato proprio dalla stesura di Quarto Potere, avvenuta durante una degenza casalinga causata da una frattura a una gamba.
I tempi vengono scanditi dalle tipiche didascalie che collocano le scene nella stesura di una sceneggiatura, tutto scorre seguendo un fil rouge che lega Mank alle donne della sua vita, dalla moglie Sara, interpretata dalla bravissima Tuppence Middleton, passando per la dattilografa Rita, rappresentata alla perfezione dalla precisa Lily Collins, per arrivare, infine, alla ricercata ed elegante performance regalata da una strepitosa Amanda Seyfried nei panni di Marion Davies.
Fincher ci offre un bianco e nero esaltante alla Sunset Boulevard rinvigorito da qualche breve rimando alla Nouvelle Vague di Françoise Truffaut, ma sono sensazioni personali, quella miscela assolutamente soggettiva di gusti e opinioni della quale parlavamo all’inizio e che dividerà sicuramente l’audience nel giudizio finale. Una cosa però è certa, questo film, prodotto e distribuito da Netflix, va visto assolutamente, perché comunque sia non è lento, non è pesante, e racconta una storia che in pochi conoscevano. Sarà quindi buona norma che vi mettiate comodi sul divano con un brodino caldo e un morbido plaid scozzese sulle ginocchia.