Il bolognese Lodo Guenzi, frontman della band Lo Stato Sociale, è un artista iperattivo dalla parlantina forbita che, terminato l’impegno televisivo nel programma Le Parole di Massimo Gramellini, si è lanciato in una intensa carriera di attore, che lo vedrà al cinema dal 24 novembre nella commedia La California di Cinzia Bomoll, poi dal 1 dicembre su Prime Video in Improvvisamente Natale al fianco di Diego Abatantuono e Violante Placido, diretto da Francesco Patierno e infine, anche in teatro con Trappola per Topi, commedia noir di Agatha Christie, diretta da Giorgio Gallione (dal 25 al 27 novembre a Bologna al Teatro Duse e poi in tournée in tutta Italia, con date sparse per gli impegni di Guenzi sul set dell’ultimo film di Pupi Avati).
Un racconto corale che vede un gruppo di sconosciuti bloccati in un albergo, mentre fuori imperversa una tempesta di neve e all’interno si consumano diversi omicidi, fino a quando un poliziotto riesce a raggiungerli dando il via alle indagini. Un classico della cultura anglosassone, che Lodo Guenzi rivoluziona con una visione molto personale.
«Trappola per topi è una storia di persone che da piccole sono state bullizzate», ci racconta Lodo Guenzi con un guizzo divertito negli occhi, «sono state menate duro o dai genitori, o dalle aspettative, dai coetanei, dall’educazione, dalla società. Tutti abbiamo subito dei traumi e tutti noi siamo delle potenziali persone orribili, anche solo perché abbiamo ignorato una richiesta di aiuto. Non è così divisibile il bene dal male, anche se oggi abbiamo una società che ha deciso di separare in maniera netta i colpevoli dalle vittime. In questo testo, la cosa decisamente interessante, è che c’è sì un assassino, ma tutti gli altri non sono per niente innocenti».
«Per fortuna non è stata sotto scorta a lungo, ma sì, ha avuto nel corso della sua carriera alcuni processi importanti. Il mio poliziotto è inventato, è un personaggio drammaturgico e comunque anche lui ha qualcosa da nascondere. Nella realtà nutro un rifiuto profondo verso ogni forma di giustizialismo, so quanto pesa decidere della libertà di qualcuno e quanto questa decisione non possa e non debba essere figlia di un sentimento diffuso di rivalsa, vendetta o espiazione collettiva. Cosa molto difficile da attuare oggi in un momento in cui la pandemia, la guerra e la rabbia sociale hanno disegnato un Paese con una tale bava alla bocca, che temo sia addirittura propenso alla pena di morte. Tutto questo mi spaventa e mi svilisce».
«In questo momento sì. Ma non sono un musicista prestato al cinema o al teatro. È il contrario. Ho cominciato prima a fare teatro, poi è arrivata la musica. Mi sono diplomato all’Accademia di Arte Drammatica di Udine. Quando sono tornato a Bologna e ho cominciato a recitare in spettacoli importanti, mi sono reso conto che non mi sentivo bene. Era tutto molto ingessato. Al contrario, i miei amici suonavano in questi locali pieni di ragazze, comunicavano cose vive, e mi è sembrato chiaro che fosse quello, in quel momento, lo spazio in cui espandere la mia creatività. Attraverso la musica abbiamo espresso le nostre idee e ben presto siamo diventati una delle band più seguite della scena indipendente italiana, quando non era ancora un mercato. E questo ben prima di andare al Festival di Sanremo».
«Non credo che sia una questione di quantità di opinionisti o dibattiti, ma di quanto questi dibattiti pubblici siano troppo polarizzati, così da far sopravvivere solo le idee più stupide e violente, personali e superficiali. Uno dei grandi problemi dell’Occidente, per me, è la crisi della libertà d’espressione, della quale dovremmo occuparci noi che viviamo di parole. Dovremmo lottare per la possibilità di dire cose anche controverse, sbagliate, estreme e offensive per qualcuno, senza che questo si riduca a un derby tra avvelenati che chiedono l’uno l’oscuramento dell’altro o squalificano l’interlocutore sul piano personale e non delle idee. Solo attraverso la complessità e il confronto possono nascere delle idee intelligenti, il resto è una tribuna».
«Sono molto preoccupato perché la situazione disastrosa del lavoro in questo Paese è data per assodata e immutabile, anzi peggiora sempre di più, contribuendo a pompare manodopera in un mondo con sempre meno diritti. Facciamo lavorare i ragazzi già a scuola, in fabbriche dove muoiono gli adulti, senza pagarli e senza protocolli di sicurezza. Togliamo diritti ai lavoratori per favorire la libertà delle aziende. Inseriamo la partita Iva nel lavoro, cosa che esiste solo in Italia. Nessun diritto, nessun futuro. Insomma, si agisce come se la vita umana fosse finalizzata alla produzione, quando dovremmo cominciare a pensare che i soldi devono servire per vivere».
Sembra di sentire uno dei pezzi de Lo Stato Sociale: Io, te e Carlo Marx.
«Certamente i nostri testi si avvicinano al pensiero marxista. Credo che il mondo possa migliorare solo se si agisce veramente per cambiare i rapporti di forza, spesso economici, che esistono nella nostra società. Credo sia più urgente eliminare le ragioni economiche per cui le persone che arrivano dal sud del mondo possono essere sfruttate e rese schiave, piuttosto che preoccuparsi unicamente di eliminare le parole discriminatorie, che altro non sono che il prodotto di questi rapporti di forza sbagliati. In principio, per me, non è il verbo, e lo dico da lavoratore delle parole, ma le azioni».
«È il lavoro meno riconosciuto, tutelato e rispettato. Persino meno rappresentato dal punto di vista sindacale. Di una precarietà devastante. È essenziale che tutti i mestieri abbiano una forma contrattuale che li tuteli. Nella musica soprattutto per i tecnici, e in secondo luogo per gli artisti. Ci sono centinaia di tecnici che lavorano a chiamata. È proprio una caratteristica dei concerti: lavorano 200 giorni l’anno sempre in maniera precaria. La battaglia politica più grande è quella per riuscire ad avere una forma di reddito continuo per queste persone. Ma come, del resto, per tutti i lavori intellettuali e culturali che in Italia sono estremamente precari, e offendono la dignità delle persone».
«E invece è della mia generazione perché abbiamo l’impressione di avere intorno un sistema basato unicamente sul principio di scambio. L’idea che basti pagare per avere qualcosa è talmente introiettata nelle persone da rischiare di diventare l’alfabeto naturale delle relazioni: affettive, familiari, e di amicizia. “There is no alternative” amava ripetere Margaret Thatcher, riferendosi al capitalismo. Non c’è alternativa. A noi che abbiamo trent’anni oggi non l’hanno nemmeno mai detto, tanto era evidente. Nessuno dopo il 2000 ha mai più creduto che un mondo diverso fosse possibile. Per questo, per la nostra generazione l’indipendenza è una cosa reale, per questo ci facciamo da soli la musica, il teatro, il cinema e anche le nostre opinioni: è la cosa più vicina che abbiamo all’immaginazione al potere».
È in scena con lo spettacolo, ha due film in uscita, è impegnato sul set. È per caso un malato di lavoro?
«Nasco vittima di un certo horror vacui: appena mi fermo, mi viene un’angoscia profonda. Non riesco a stare senza fare niente. E non so stare da solo. Sono un workaholic, come tutti i figli disadattati del capitalismo che si fa mordere da mostri famelici per portare a casa qualche risultato. Anche se poi, una volta ottenuto, non me lo godo mai veramente».
«Assolutamente. Sono un ipercritico: da un lato penso di poter fare qualsiasi cosa, dall’altro non riesco mai a essere soddisfatto da nessun risultato, anche se il successo mi dice il contrario. È un problema che solo la psicanalisi può risolvere».
Che rapporti ha con il resto della band Lo Stato Sociale?
«Siamo una famiglia e amici da sempre. Anche se separatamente, continuiamo a lavorare insieme, perché abbiamo fatto un patto che ci rende molto liberi, non costringendoci ad uscire con dischi ogni anno senza senso. Ognuno ha le sue attività: io faccio l’attore, c’è chi scrive e disegna fumetti, chi si dedica alla produzione, o segue il management, ma con una regola ben precisa. Il 50 per cento di tutto quello che guadagniamo extra musica, lo versiamo nella band. E non importa chi guadagna di più».
«Per me è giusto così. Questa decisione ci dice che il tempo che io rubo al gruppo, lo pago. In questo modo, ci concediamo il lusso di non aprire bocca finché non abbiamo qualcosa da dire, e questa mi sembra l’unica vera ribellione al mercato. Siamo molto contenti di questo».
«Sono passati sei anni e finalmente abbiamo di nuovo qualcosa di importante da dire. Stiamo preparando per il 2023 un disco estremo, parole dure, una versione punk de Lo Stato Sociale, sentirete».