Una folgorazione sulla strada che dal divano porta alla camera da letto, tanto che nemmeno il sonno è riuscito a impedire al corpo di continuare fino alla fine la visione della scintillante La regina degli scacchi, stupenda mini serie lanciata da Netflix alla fine di ottobre che ha raccolto unanimi consensi di critica e pubblico.
Non è, lo scrivo subito per evitare qualsiasi incomprensione, una storia appagante solo per appassionati del gioco, tuttavia per chi ha frequentato fumose cantine cubane alternando una Est indiana a una Réti, o ha speso del tempo schifando aperture moderne in nome della tradizionale partita italiana al vecchio e asburgico Caffè Europa, l’appetito aumenterà a dismisura puntata dopo puntata.
La vera novità è rappresentata dal fatto che, in una specialità frequentata per lo più da uomini, la protagonista della vicenda sia una donna, interpretata dalla bravissima e giovane attrice americana Anya Taylor-Joy. La sua performance, assolutamente pregnante e ricca di piccole svisate di grande livello, colpisce per intensità e fascino recitativo, e non a caso aveva fatto intravedere grandi doti lavorando con Shyamalan in Split nel 2016. La trama è totalmente inventata, anche se tutti i riferimenti scacchistici che riguardano i tecnicismi o la vita di giocatori del passato come il grande Capablanca o il maledetto ed estroso maestro Paul Morphy, sono veritiere.
Ma, come anticipato, non si racconta solo di questo, ma anche e soprattutto di solitudine, dipendenze, amori difficili, riscatto personale. Elisabeth, questo è il nome della geniale enfant prodige, è una bambina rimasta orfana che trascorre tutta la sua infanzia, fino alla prima adolescenza, in un istituto. Intellettualmente molto dotata, trova difficoltà a inserirsi, ma viene aiutata in questo dal vecchio custode, che le insegna le prime mosse degli scacchi, dalla sua vicina di letto, una ragazza difficile ma con il cuore tenero, e dalle benzodiazepine, fornite in dosi massicce dall’orfanotrofio stesso.
Lo sviluppo della trama è assolutamente sorprendente, grazie all’ottimo lavoro del regista e sceneggiatore Scott Frank, superlativa penna nel 1995 del magnifico Get Shorty di Barry Sonnenfeld, alla fotografia elegante di Steven Meizler e alla colonna sonora originale griffata Carlos Rafael Rivera. Personalmente posso dire di avere apprezzato anche alcuni dettagli che riguardano i costumi di Gabriele Binder e la scenografia, anche se, ovviamente, le magiche atmosfere medio borghesi degli anni Sessanta si prestavano alla perfezione a qualsiasi intreccio di colore nei vari set preparati mirabilmente dall’ottimo production designer tedesco Uli Hanisch.
Sette puntate da guardare assolutamente, trascinanti dalla vita piena di risvolti di una donna pronta a mettersi in gioco in ogni momento, audace, combattiva, spinta al riscatto da un’esistenza passata sofferta e fuori dagli schemi, debole e fragile, tuttavia forte di una sensibilità romantica e gentile. Non era prevista una seconda stagione, ma, a lume di naso, visto il successone, credo che le cose cambieranno, anche se Walter Tavis, autore del romanzo omonimo da cui è stata tratta la serie, pare non sia d’accordo.
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