Partiamo da un presupposto. Io non credo che la beneficenza si debba fare in silenzio come principio insindacabile. Credo che la generosità, se condivisa, possa essere contagiosa, credo che organizzare (mettendoci la faccia) una raccolta fondi significhi non solo avere l’opportunità di raccogliere grandi cifre ma anche di sentirsi parte di un’azione, aggregare il bene, far sapere da che parte del mondo si sta.
E in un momento storico in cui è pieno di gentaglia che urla, è giusto fare rumore anche dall’altro lato della barricata. Farsi sentire. E quindi no, non parto prevenuta né nei confronti di Fedez né nei confronti della beneficenza raccontata.
La raccolta fondi sua e di Chiara Ferragni durante la pandemia mi è parsa una bella cosa, gestita bene, per dire (sul destinatario della cifra potrei sollevare qualche obiezione, ma non è importante). Il problema però è che dopo quel momento la beneficenza, per Fedez, è un qualcosa che a tratti è sembrata svuotata di significato, a tratti un compromesso tra la buona azione e il self branding, a tratti, come per quest’ultima vicenda del tour dei poveri in Lamborghini, un qualcosa che ha più a che fare con il format di un reality cafone che con la beneficenza.
Non starò qui a fare retorica sull’incapacità di Fedez (che finisce spesso vittima di una spirale narcisistica al limite del patologico) di spostare ogni tanto i riflettori da sé e di puntarli altrove, ma sulla sua incapacità di trovare la misura.
Dal cibo lanciato al supermercato alle mazzette di banconote regalate dal finestrino della Lamborghini mancano quelle infinite vie di mezzo che Fedez sembra considerare di rado, in questa sua continua oscillazione tra il fanciullo che non sa crescere e l’adulto capace di buoni slanci, perennemente mortificati dal suo ego.
Prendiamo anche la storia di Conte e della richiesta di pubblicizzare l’utilizzo delle mascherine. Naturalmente il premier voleva dei testimonial credibili che passassero il messaggio ai ragazzi, un adolescente che se lo sente consigliare dal premier probabilmente si mette a fare la gara di sputi con gli amici.
Anche in quel caso Fedez non ha saputo fare una cosa buona e giusta senza anteporre se stesso al messaggio. E quindi non ha detto “mettetevi le mascherine”, ma “mi ha chiamato il premier, mi ha detto di dirvi mettetevi le mascherine” non capendo che la faccenda della chiamata non andava detta. E la notizia è diventata lui, il messaggio si è perso.
Non solo, ma è saltata tutta un’operazione che il premier aveva in mente (quella di chiederlo a vari influencer che già erano stati in parte allertati) perché il suo rivelare che fosse una richiesta di Conte ha tolto genuinità all’operazione e ha scatenato ilarità (il premier ha bisogno dei Ferragnez!).
Questa dei 5.000 euro dati a “rappresentanti di categorie” per strada e in Lamborghini è una brutta deriva autoreferenziale e volgare in cui un amico gli avrebbe dovuto sconsigliare di infilarsi. Quella cosa lì, è bene che Fedez lo sappia, non c’entra nulla col fare del bene. È fare show col bene, che è un’altra cosa.
Non sono né la storia di quelle persone né il gesto in sé quello che passa nel video con cui Fedez ha raccontato la sua iniziativa. Non sappiamo niente di quelle persone, solo che sono poveri o gente modesta, che in quanto rappresentanti di specie protette sono stati scelti a caso come beneficiari, come destinatari di bustarelle piene del Babbo Natale senza renne e molti cavalli.
Quello che conta è spettacolarizzare, rendere un format buono per i social, la faccia del rider di colore che apre la busta, la mano che porge dal finestrino il denaro al senzatetto, alla cassiera del McDonald’s e lui, Fedez, che regala 1.000 euro alla poveretta che ha ancora il resto in mano dei McNuggets e poi sfreccia via sulla sua Lamborghini come un Superman, dopo aver salvato il bambino sul cornicione.
E guai a dire che questa non è beneficenza ma show, che quello che passa è Fedez in giro per Milano a fare lo sborone con la macchina grossa e le banconote da mille euro nel portafogli, riprendendo col telefonino gli sfigati a cui lui regala un Natale un po’ meno sfigato. E che no, non passa il bello e la generosità, passa il format.
Guai eh. Perché lui vi risponderà “Dovevo girare con la Panda?” o “E allora il fondo per i lavoratori dello spettacolo? Visto che mi criticate, sappiate che io ci ho messo 100mila euro!”, peggiorando ancora di più la situazione, perché la beneficenza usata come rivendicazione e vessillo della propria bontà è perfino peggiore di quella usata per fare show. (anche per la prima raccolta fondi aveva raccontato la cifra della sua donazione, e vabbè).
I fan vi risponderanno che “almeno lui fa qualcosa”, ignorando che non è l’unico, il loro beniamino, a fare qualcosa. È l’unico a farlo riprendendosi in Lamborghini, sicuramente.
Io ne conosco di personaggi noti che donano implorando l’anonimato. Tanti. Ogni tanto contattano anche me per chiedermi dei riferimenti e mi implorano “Però non dire nulla per favore”.
Poco tempo fa una famosissima attrice che voleva fare una donazione a una famiglia che aveva visto in un servizio tv, qualche giorno fa un noto stilista che mi ha comunicato di voler pagare le spese legali alla maestra di Torino vittima di revenge porn mi ha chiesto i contatti dell’avvocato. Persone a cui interessa fare del bene, non far sapere quanto sono buone.
Questo non vuole dire, come ricordato all’inizio, che il bene non vada raccontato. Ma se il racconto di te viene prima, se ti servono costantemente i social, la racconta fondi con comunicati e conferenze stampa, il telefonino, la macchina cafona e qualcuno a cui mostrare la banconota che esce dal portafogli, se non ti rendi conto che il problema è sì, anche la Lamborghini, perché non si va a regalare una caramella a un senzatetto mangiando caviale, la faccenda diventa stucchevole. Dolciastra. Di quel dolciastro che fa diventare una cosa buona, fastidiosa.
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