Una sera di un anno fa ero davanti alla tv e mi sono imbattuta in “Io e te”, il programma di Pierluigi Diaco in cui “io e te” sta per “io e te che ascolti estasiato me”. Non avevo mai visto il programma né Diaco nel ruolo di conduttore/intervistatore e ricordo che terminata la sua intervista all’incolpevole ospite (Garko), pensai che un mondo in cui Diaco è elevato al ruolo di intervistatore, è un mondo che meriterebbe una pandemia. Quindi no, il mercato degli animali di Wuhan probabilmente non c’entra nulla. Ma andiamo avanti. L’intervista fu un concentrato di risatine e leziosità costellate di riflessioni stucchevoli sulla vita e i sentimenti, in cui Diaco fingeva di essere interessato a Garko, ma per cui ogni risposta di Garko era un’occasione per fare la ruota lui.
“Sono contento che tu abbia accettato, se tu ti concedi è perché hai fiducia nell’interlocutore”, esordì, che è un po’ come la D’Urso quando: “Tutti la volevano ma la madre di Favoloso ha scelto Domenica Live”. Che uno dice: me cojoni. E poi frasi meravigliose come: “Mantenere il brand Garko credo non sia facile!” o “A me capita spesso, a te capita mai di odiare l’iconografia Garko, il modo in cui gli altri ti raccontano?”, roba che scoprii contemporaneamente che Garko è un brand e che esiste un’iconografia-Diaco. Mi prese molto anche il passaggio “io l’analisi l’ho fatta per anni e trovo che dovrebbe essere obbligatoria per tutti!”, che è un po’ come se Di Maio dicesse “ho fatto dei corsi di leadership e trovo che dovrebbero farli tutti!”.
Poi fece un lungo pippone – ovviamente autoreferenziale – su come avesse deciso di non chiedere nulla a Garko sulla sua vita privata perché ognuno ha la sua identità e normalità è non chiedere, pippone che ovviamente era un modo per spostare l’attenzione su di sé e farci sapere quanto è immenso il suo pudore. Garko, che davanti a lui era un gigante di acume e simpatia, rispose leggero: “Giusto, parliamo di cibo così non facciamo allusioni strane. Se a me piace la crostata con le pere e il salame piccante che problema c’è?”. A quel punto, il Diaco che volava alto e le questioni da portinaia per carità, rispose: “Aaaah mi hai dato un suggerimento…. “sei capriccioso Gabriel”…. “ti piacciono le cose forti”… “Prima o poi andiamo a mangiare insieme e capimmo se i gusti sono gli stessi!”.
Insomma, volevo cambiare canale ma mi chiedevo se l’intervista potesse toccare dei punti di allusiva svenevolezza ancora più bassi. Ho fatto bene a tenere duro perché la risposta era ovviamente sì. È arrivato anche il momento della canzone strappalacrime fatta ascoltare in studio con Diaco inquadrato tutto il tempo con gli occhi chiusi e poi la frase di congedo: “Grazie Garko, sei una bella persona”. Sei-Una-Bella-Persona. Roba che non sentivo ‘sta frase da quando mi lasciò il mio ex al liceo. In questi giorni si parla molto di Diaco perché non sarebbe, lui, una bella persona. Nel senso che ormai i filmati in cui vengono mostrate le sue risposte stizzite all’ospite, le frasi piccate agli autori e le sparate da capetto de noantri tipo “Questa è casa mia”, “Vuoi condurre tu?” o “Datte ‘na calmata” a un autore reo di essere passato davanti a una telecamera, sono routine.
Il problema di Diaco, oltre a un’ evidente difficoltà nella gestione della rabbia, è che è convinto di essere l’erede naturale di Maurizio Costanzo, di cui è inspiegabile pupillo. E forse, nella sua testa, crede che la ruvidezza di Costanzo, di cui talvolta sono stati vittime anche i suoi ospiti, sia un modello. In effetti potrebbe anche esserlo, solo che Costanzo è ruvido e sarcastico, Diaco è solo sgradevole e antipatico. E no, non si diventa personaggi a botte di antipatia, a meno che l’antipatia non sia supportata da un grande talento di cui a mio parere in Diaco non esiste una traccia riscontrabile neppure tramite tampone naso-faringeo.
Sempre che per talento non si intenda quello che Grasso, scrivendo di lui, descrisse così: “Cerca di entrare nelle grazie di chiunque detenga un potere senza mai dispiacere l’interlocutore, inondandolo anzi di melassa e di condiscendenze. Le doti principali di Diaco sembrano essere appunto l’adulazione e l’opportunismo: è di sinistra ma anche di destra, dice di amare le donne ma anche gli uomini, parla da orecchiante ma anche da cultore di idées reçues, espresse preferibilmente in un italiano incerto”. Ecco, se si intende questo, Diaco a talento è Robert De Niro.
Del resto, sul suo carattere la miglior fotografia resta “L’isola dei famosi” (2015) in cui fu concorrente: tacciato da più o meno tutti di essere doppio e retorico, uscì dal reality con un commovente record personale: quello di far rivalutare la simpatia di Alex Belli. A proposito, conobbi Diaco proprio alla mia prima esperienza da opionionista tv nel 2003. Era la prima edizione dell’Isola, sedevamo vicini e ricordo che non riuscii mai a spiccicare una parola, perché se la prendeva sempre lui. Inesperienza, direte voi. L’ho incontrato di nuovo a Domenica In, per la puntata post Sanremo quest’anno, e per tutta la prima parte in cui era accanto a me, non sono riuscita ancora una volta a prendere la parola per lo stesso motivo (e non solo io, una nota giornalista se ne andò durante la diretta).
Non che mi sia offesa e non che sia stato maleducato, per carità, ma mi ha colpito quella fame di microfono che è tipica di chi per vincere la corsa non esiterebbe a darti una gomitata e a farti finire nel cespuglio. Ma credo che a me sia andata più che bene, visto che ci siamo solo sfiorati. Meno bene deve essere andata a Georgia Luzi, che oggi su Instagram ricorda un’esperienza lavorativa traumatica, con un collega dall’ego spropositato che le lanciò una sedia (lei e Diaco condussero insieme Uno Mattina nel 2010, chissà se parla di lui…).
Ma in fondo non è nemmeno quello delle intemperanze caratteriali l’aspetto più fastidioso. Il peggio di Diaco è quel cerchiobottismo che lo ha guidato per esempio nella difesa della paladina della famiglia tradizionale Giorgia Meloni (lui, sposato con uomo) e le sue dichiarazione su quella cosa oscena che fu il Congresso delle famiglie a Verona (“il vero diritto a cui dovrebbe ambire la comunità gay è quello alla sobrietà”, “io credo che su questo congresso si sia concentrata un’ attenzione mediatica smodata (…) La Meloni e Salvini mi hanno fatto gli auguri quando mi sono sposato…”).
Le ultime perle sono Diaco che dà dello sleale ad Alberto Matano si dice con modi pirotecnici dietro le quinte (ma lui nega) e Diaco che in un video destinato a diventare cult, piagnucola a favore di telecamera, con Insinna accanto, che lui se sbrocca come certe volta fa Insinna per troppa passione per questo lavoro, lo fa “per chiedere aiuto” e “quelle reazioni non assomigliano ai personaggi televisivi”. Ora, a parte che se Insinna voleva trovarsi un avvocato difensore per le sue, di isterie, era meglio perfino Carlo Taormina, sarebbe interessante capire cosa c’entrino la passione e il bisogno d’aiuto con “le brutte intenzioni e la maleducazione” (cit. Morgan vs Bugo). Cosa voglia dire questo monologo da teatrante di parrocchia, con le lacrime asciutte e lo sguardo in camera per trasmettere sincerità e cosa voglia dire che rispondendo male a ospiti e autori lui chiede aiuto. Se la maleducazione è una richiesta d’aiuto, devolviamo le donazioni Unicef a Vittorio Sgarbi.
Infine, voler suggerire che il modo in cui trattiamo gli altri sul lavoro è qualcosa di slegato dal nostro modo di essere è un’acrobazia paracula che conferma esattamente l’opposto: le parole ci somigliano. E infatti le parole artefatte e costruite di chi cerca di uscire da una pessima e prolungata figuraccia spacciandola per una conseguenza della sua troppa passione e della sua troppa troppa bontà, somigliano a chi le ha pronunciate. Somigliano a Diaco, “il cui disordine no, non è una forma d’arte” (semi-cit. Morgan vs Bugo). È solo maleducazione.
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