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Tutto comincia con Giusy: il caso della piccola Giusy Potenza a “Detectives”

Ultimo appuntamento con il programma condotto da Pino Rinaldi, in onda stasera, domenica 3 novembre, su Rai 3 alle 23.10

Di Anna Giurickovic Dato
Pubblicato il 3 Nov. 2024 alle 18:00 Aggiornato il 4 Nov. 2024 alle 13:05

È il 13 novembre del 2004 quando, intorno alle 12.50, la polizia di Manfredonia riceve una telefonata anonima. Un uomo, che non si identifica, segnala la presenza di una giovane “ragazza morta” sulla scogliera. La squadra mobile si reca sul luogo del delitto, alla scogliera, e proprio lì, su un terreno aspro a picco sul mare, trova una scena raccapricciante: una giovanissima ragazza lasciata lì, seminuda, con la testa fracassata dai sassi. Si tratta di Giusy, aveva solo 14 anni. La sua scomparsa era stata denunciata solo il giorno prima, dalla madre e dal padre, dopo ore e ore di autonome e disperate ricerche. La loro bambina – scoprono – è stata lapidata. Intorno al suo corpo vi sono due grandi massi bianchi ancora intrisi di sangue.

Giusy ha i pantaloni abbassati sino alle ginocchia, il corpo pieno di lividi ed ecchimosi. Ha piovuto tutta la notte, i suoi vestiti sono zuppi, stracciati e sporchi di sabbia.

Chi può avere fatto questo a Giusy Potenza? La ferocia dell’omicidio, quel masso che pesa sette kilogrammi: in televisione si parla di branco o di setta satanica. L’attenzione si concentra sulla vittima: bellissima, estroversa, in una fase di piena ribellione adolescenziale, alla scoperta dell’amore, del sesso, dell’effetto e del potere che può avere il corpo femminile; alla scoperta dell’equazione corpo-potere, con l’ingenuità, però, di chi, a soli quattordici anni, non ne sospetta ancora l’inganno, cioè che corpo della donna è anche un campo di guerra. Giusy, questo, lo scoprirà soltanto poche ore prima di morire, sotto le sassate dell’assassino che le cancellerà prima il volto e poi la vita.

Chi, per ultimo, ha visto Giusy Potenza viva? Quel pomeriggio aveva fatto i compiti, poi aveva aiutato la madre a pulire i vetri; poi era scesa alla cartoleria sotto casa per andare a comprare alcuni CD da masterizzare. Non vedendola tornare, la madre di Giusy scende a cercarla, poi chiama il marito e la cercano insieme per tutta la notte. Non trovano niente. L’ultimo ad averla vista è un amico, un coetaneo, che dice di averla vista salire su una Fiat Punto Verde, a bordo due ragazze che conosce.

La Fiat verde diventa la pista trainante, ma intanto il corpo della povera Giusy incomincia a dire qualcosa di più sull’assassino: dall’autopsia, la polizia scientifica identifica del liquido seminale.

Si pensa a una violenza sessuale, poi la si esclude: ci sono delle piccole lacerazioni, ma non dell’entità di quelle che sarebbero normalmente prodotte da una violenza – ritiene il medico legale – sono più compatibili con un rapporto “scomodo”. Quel che è certo, però, è che l’uomo con cui Giusy Potenza – ancora minorenne – ha consumato il suo ultimo rapporto sessuale potrebbe essere anche l’ultimo uomo ad averla vista viva: il che significa il suo assassino.

Quel codice genetico diventa “Ignoto 1” e, confrontato con i potenziali sospettati, dà esito negativo: li esclude tutti. Il DNA, però, contiene una verità sconcertante: appartiene a un uomo che è parente di Giusy Potenza per linea paterna. Ma la famiglia Potenza è vastissima, è come cercare un ago in un pagliaio, così la Polizia di Manfredonia predispone un prelievo a tappeto.

Il padre di Giusy bussa ogni giorno alla porta del Commissariato, vuole risposte, vuole sapere il nome dell’assassino che gli è parente, e strappa agli inquirenti una promessa: prima di Natale, costi quel che costi, troveranno il colpevole. È il 23 dicembre quando, a ridosso della Vigilia, arriva un riscontro della Polizia scientifica: “Ignoto 1” è Giovanni Potenza, un cugino di Giusy Potenza, di tredici anni più grande. Ha ventisette anni, ha moglie e figli, fa il pescatore e in quel momento si trova in mezzo al mare, al largo di Termoli. Quando la Polizia arriva invita più volte il peschereccio a rientrare nel porto, ma l’imbarcazione non rientra, temporeggia, dà indicazioni fuorvianti sulla sua reale posizione. Sulla prua c’è Giovanni Potenza che sembra voler tentare la fuga, tenta di saltare sulla banchina ma, vista la mareggiata, deve desistere. Viene arrestato, non oppone più alcuna resistenza e, anzi, una volta salito in macchina comincia subito a confessare.

Dice che Giusy era la sua amante, da alcuni mesi avevano iniziato a vedersi una volta a settimana, il venerdì. Quel pomeriggio dice che Giusy aveva cominciato ad avere pretese, minacciandolo di rivelare tutto se non avesse lasciato la moglie. Giusy sarebbe caduta dalla scogliera a causa di un incidente, lui l’avrebbe soccorsa – racconta – e poi, solo a quel punto, in preda a un raptus, le avrebbe dato il colpo finale.

Molte questioni restano irrisolte in questo caso dove una cosa sola è certa, l’identità dell’assassino, reo confesso. Il resto, invece, rimane oscuro: dubbi restano, ad esempio, sui rapporti tra la vittima e l’assassino, una relazione extraconiugale, forse un amore di cui niente, neanche il diario segreto della bambina, ha lasciato traccia; e nessuno, neanche i medici e i periti, è riuscito a negare o ad affermare se vi sia stata o no una violenza sessuale prima del brutale femminicidio. Il paradosso vuole che esista solo la parola di chi uccide, l’unico detentore di verità, mentre Giusy è e resterà per sempre muta. Una donna senza voce, come tante.

Intanto, la sofferenza per la morte della piccola Giusy Potenza non lascia scampo a nessuno. Suo padre, poco dopo, finisce in carcere per aver accoltellato un uomo, il padre di una delle ragazze che – si diceva – avesse spinto Giusy a prostituirsi. Poche settimane ancora e la madre di Giusy si reca nel negozio di pesca dove si riforniva sempre il marito, compra una corda e, incinta di otto mesi, la fa finita, si impicca.

La sua morte è diventata una tragedia corale, che ha distrutto una famiglia intera e ancora oggi, a vent’anni di distanza, è capace di scuotere le coscienze di tutti noi…

Dopo vent’anni, infatti, il nome di Giusy risuona ancora in tutta Italia: il suo fu etichettato come il primo “femminicidio” mediatico, era la prima volta che in Italia si cominciava a nominare questo neologismo, ed è con e per Giusy Potenza che nasceva la volontà e l’esigenza di far riconoscere un fenomeno sociale e giuridico che in molti volevano e vogliono negare: esiste una violenza che nasce e muore sul corpo della donna, in quanto donna. Esiste una furia omicida, trasversale ai gruppi sociali e ai luoghi geografici, ed è quella degli uomini che odiano le donne che non accettano il ruolo che è loro imposto.

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