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Sì, la Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca (se guardarla è un obbligo)

Per molti, Paolo Villaggio ha macchiato per sempre la reputazione del capolavoro di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn. Ma è davvero così?

Di Guglielmo Latini
Pubblicato il 5 Lug. 2017 alle 17:04 Aggiornato il 3 Lug. 2018 alle 13:28

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Sono dieci i titoli cinematografici in cui Paolo Villaggio, scomparso lo scorso 3 luglio, ha interpretato l’ormai mitica figura del ragioniere dal 1975 al 1999.

Ma dal giorno della morte dell’attore genovese è in corso un dibattito tutto italiano focalizzato su una sola, specifica scena della sua filmografia: quella della Corazzata Potëmkin.

Se in molti, come prevedibile, hanno ricordato le tante creazioni linguistiche di Villaggio, o ne hanno esaltato la capacità di ritrarre un perfetto italiano medio o mediocre, c’è anche chi ha voluto sottolineare in questo momento di grande attenzione sulla carriera dell’attore una sua maxima culpa: quella di aver macchiato per sempre la reputazione del capolavoro di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.

Per i pochi che non abbiano mai avuto occasione di vedere la scena incriminata, o che non abbiano anche solo ascoltato l’immortale battuta che ne costituisce il perno, di seguito un brevissimo riassunto del contesto.

Il film è Il secondo tragico Fantozzi, anno 1976, e tra le disavventure che vedono protagonista il rag. Ugo Fantozzi, ufficio sinistri, c’è quella che coinvolge il dirigente della Megaditta professor Guidobaldo Maria Riccardelli, appassionato cinefilo che costringe ripetutamente i dipendenti a frequentare il cineforum aziendale.

I film proiettati sono i classici del muto venerati dagli intellettuali dell’epoca, quelli che riempiono le prime pagine delle antologie universitarie sul cinema e che Fantozzi e i suoi colleghi eviterebbero volentieri se non si trattasse di un obbligo lavorativo.

In particolare, quando una sera il ragioniere è pronto con “frittatona di cipolle e familiare di Peroni gelata” a gustarsi la partita Inghilterra-Italia in tv, Riccardelli organizza a tradimento un’ennesima proiezione obbligatoria della Corazzata Potëmkin (trasformata parodicamente in Kotiomkin nel film), alla quale i dipendenti si recano a dir poco malvolentieri.

Da qui in poi, è più utile lasciar parlare le immagini:

Tornando invece al ritorno di fama della Corazzata dopo la morte di Villaggio, è interessante notare come diverse voci in rete (qui, qui e qui, per gli esempi più visibili) si siano spese per ricordare il peccato originale di aver associato per sempre il film ai gusti incomprensibili di un certo milieu intellettuale fatto di seriosità, impegno e maglioni a collo alto.

L’accusa è quella di aver frainteso il film, di averne alterato deliberatamente la durata (“18 bobine” invece di 75 brevi minuti) e il ritmo (non lento, ma vorticoso), di averne fatto una bandiera di tutto quello che è snob, noioso, elitario e nemico dei sani, genuini gusti del popolo italico.

I difensori dell’arte di Ėjzenštejn dicono di guardarlo questo film, di non credere alla vulgata fantozziana, di non conformarsi al degrado culturale imperante, magari seguendo l’esempio delle quattromila persone che il 26 giugno si sono riunite in Piazza Maggiore a Bologna e hanno applaudito commossi e convertiti.

Il problema però, anche se in buona fede, è che i difensori del film finiscono per reiterare le colpe del prof. Riccardelli, impegnato a inculcare sistematicamente il Verbo dall’alto del suo scranno e a trattare i dipendenti/lettori come sottoposti da educare. Anzi, da rieducare per salvarli dai loro volgari piaceri consistenti nei vari Giovannona coscialunga e L’esorciccio.

Quello che si dimentica è che la funzione di Villaggio – soprattutto nei primi e più rivoluzionari anni della sua carriera – era quella di comico irriverente, di giullare spietato, in grado col suo umorismo tragico di portare allo scoperto le angherie del potere ma anche la miseria servile di chi lo subisce.

La scena della Corazzata altro non è che un’ennesima versione della storia dei Vestiti nuovi dell’imperatore, con Fantozzi che grida a modo suo: “Il re è nudo!”, dando voce ai tanti impossibilitati, per paura, a esprimere ciò che è palese ma che nessuno ha il coraggio di dire.

Basta poco per rendersi conto che la scelta del film da prendere di mira non ha a che fare con una sua specificità, ma che è simbolica di una generica adorazione di certe élite per i film più ostici dell’epoca del muto, tanto che Fantozzi poco prima cita anche altri venerati maestri come Murnau, Griffith, Wiene (“Das Cabinet des Doktor CaligariS”), Dreyer (“Dies Irae, sei ore”) e Flaherty (“L’uomo di Aran, nove tempi”).

La Corazzata non è che la punta dell’iceberg di questi titoli d’essai già vetusti nel 1976, che rappresentavano però la programmazione tipica di cineforum aziendali (e non) presieduti da austeri professori desiderosi di diffondere quelle opere, già all’epoca lontanissime dal linguaggio cinematografico del tempo.

Il problema è probabilmente proprio questo: il cinema, come tutte le arti, è in continuo movimento e in continua evoluzione, e come tutte le arti con il tempo subisce modifiche al canone delle opere universalmente riconosciute come valide.

All’interno dell’accademia, in ambito cinematografico o meno, chiunque potrà confermare come alcune opere sopravvivano meglio di altre al passare del tempo, e di come i gusti si aggiornino finendo per tracciare una distinzione tra “sommersi e salvati”, tra opere apparentemente immortali e altre più datate.

Quello che Fantozzi sta urlando è: voi avete la libertà di godervi il vostro cinema, e noi di goderci il nostro, senza bisogno di imposizioni, di lezioni, di pedagogia da dopolavoro.

Lo studioso francese del cinema Jacques Aumont, in un saggio dal provocatorio titolo L’histoire du cinéma n’existe pas, scriveva già anni fa: “Che si possa ancora trarre un vivo piacere estetico dai film di Murnau è stupefacente, tanto sono lontani da tutti i punti di vista dai modi attuali dell‘arte e della sensazione […]. È possibile che un giorno Nosferatu e Faust verranno giudicati ridicoli, brutti, senza immaginazione né poesia”.

Il problema è che forse è già così, volenti o nolenti. Un domani – quando i guardiani del cinema da preservare cambieranno, spostandosi sempre più dallo studioso al fan, dall‘erudito all’appassionato – sarà possibile per il pubblico non essere più in grado di accostarsi a queste opere con la nostra stessa sensibilità, così come oggi capita già con alcune opere letterarie o musicali del passato.

Quali film, in questa nuova canonizzazione della storia del cinema, continueranno a essere preservati, archiviati, citati e soprattutto visti, e quali invece soccomberanno a questa selezione?

Probabilmente le future storie del cinema saranno incentrate su quei film più capaci di altri di mantenere nel tempo un seguito comunitario fedele, più che su un valore artistico attribuito da apparati colti ma settari.

Ecco quindi che forse Il secondo tragico Fantozzi sopravviverà più a lungo della Corazzata Potëmkin nel cuore degli spettatori italiani, proprio perché più vicino al gusto odierno e soprattutto perché fruibile non come dovere imposto dall’alto – un po’ come Manzoni in letteratura –, ma come piacere volontario, senza intermediari obbligatori.

A differenza di quarant’anni fa, quando la cultura cinematografica veniva filtrata da pochi eruditi, oggi la disponibilità di titoli di ogni epoca è vastissima, e le possibilità di accesso sterminate. Chiunque ha modo di crearsi una propria sensibilità e scegliere in base al proprio gusto, senza dover sottoporsi a torture in celluloide a opera di Riccardelli contemporanei.

Con la speranza che in futuro nessuno debba meritarsi terribili punizioni “fino all’età pensionabile” o eterni stigmi culturali per aver avuto il coraggio di dire che il re è nudo. O che La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca.

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