È tornata a Roma Alessandra Gonnella, 29 anni, per partecipare alla decima edizione dei Fabrique du Cinema Awards 2024, evento che ha la vocazione di scoprire e valorizzare il prodotto audiovisivo giovane e innovativo, (oggi, 17 dicembre al Cinema Olimpia), per premiare la categoria serie tv. E chi meglio della giovane regista e sceneggiatrice veneta, londinese di adozione, che all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma ha presentato “Miss Fallaci”, la serie dedicata ad Oriana Fallaci, interpretata da Miriam Leone, la cui storia è inspirata al suo corto vincitore di un Nastro d’Argento, “A Cup of Coffee of Marilyn”, in onda sulla Rai nei primi mesi del 2025, e che vede il suo debutto alla regia nella serialità.
La sua è una storia di grande passione per questo mestiere, nata molto presto.
«La passione ce l’avevo già dalle elementari. In pratica partecipavo a tutte le attività legate al teatro, alla recitazione, alla danza e alla musica. Più grande ho scoperto che mi piaceva stare dalla parte dell’organizzazione, della scelta degli attori, dei costumi, insomma dirigere più che recitare. Il problema è stato quando, vivendo in una cittadina di provincia come Monte Belluno, ho espresso il desiderio di diventare regista, è stato come se avessi detto: voglio fare l’astronauta! La gente mi guardava stralunata, perché non si sapeva né come, né dove e né cosa fosse effettivamente».
Era già così consapevole?
«Abbastanza. La consapevolezza l’ho acquisita molto presto così come la volontà di trasferirmi a Londra, che mi era piaciuta tantissimo quando alle medie sono andata in Inghilterra a studiare la lingua. In quei mesi ho capito che non era solo una sensazione, io volevo vivere lì e volevo diventare regista a Londra».
La sua prima esperienza?
«A 17 anni con i compagni di liceo ho realizzato un corto su Eleonora Duse, che era di Asolo. Durante la pausa estiva siamo andati tre giorni ad Asolo e abbiamo girato in bianco e nero un lavoro di ben 25 minuti. Un biopic in costume! Per realizzarlo sono andata nell’unico negozio vintage del mio paese dove una signora molto eccentrica ed elegante, mi ha prestato i costumi per gli attori. Chiaramente ho fatto tanti errori. La storia della Duse a 60 anni interpretata da una ragazza che ne aveva 18, ma non conoscevo ancora il linguaggio della cinematografia».
Quando è arrivata a Londra?
«Dopo il liceo mi sono trasferita a Londra e ho studiato cinema grazie alla mia famiglia che mi ha supportato in tutto. Studiavo e intanto facevo tante esperienze sul set come runner, o assistente alla produzione. Nel frattempo continuavo a fare i corti per la scuola fino a quando non sono riuscita a mettere in piedi la realizzazione di “A cup of coffee with Marilyn”, ispirato al libro di Oriana Fallaci, che racconta i suoi inizi in America quando si faceva spazio come giornalista di costume e voleva intervistare a tutti i costi Marilyn Monroe. Non stavo più giocando a fare la regista, cominciavo a fare sul serio. Ho dovuto chiedere i diritti del libro, e volevo un’attrice famosa come Miriam Leone, che dopo varie e-mail ha risposto con un sì, dandomi grande fiducia. Per riuscirci ci ho messo due anni, grazie a un produttore veneto, Diego Loreggian, contattato su Linkedin. Avevo scritto a decine di produttori, lui è l’unico che mi ha risposto. E grazie a Miriam Leone, disponibile a farsi dirigere da me che non ero nessuno, dando così grande visibilità al cortometraggio».
Non si è fermata qui.
«Durante il Covid ho scritto il soggetto di serie e ne ho parlato con Loreggian. Una volta finito il lockdown abbiamo cercato una partnership perché questa volta non potevamo fare tutto da soli. Dopo tanto vagare ci ha contattato Minerva Pictures e insieme a loro abbiamo portato il progetto al Mia Market. Bisognava fare un pitch in inglese, c’erano veramente tante produzioni a presentare i loro progetti, eppure abbiamo vinto noi ed è arrivata anche la Paramount Television».
La serie, di otto episodi, la vede alla regia insieme a Luca Ribuoli e Giacomo Martelli. Com’è stato collaborare con altri registi?
«È stato molto interessante collaborare con professionisti che hanno tanta esperienza, perché la serialità è veramente una macchina impegnativa da sostenere e portare avanti. La struttura drammaturgica di un episodio non è quella di un film, dura 50 minuti, deve sempre succedere qualcosa, quindi la pluralità di voci è assolutamente necessaria. Sono stata molto fortunata. Grandi professionisti come Luca Ribuoli, non solo mi hanno insegnato un po’ il mestiere, ma fin da subito hanno riconosciuto l’origine dell’idea, hanno rispettato la mia visione, cosa che non è affatto scontata. Luca Ribuoli, capo del progetto, ha sempre chiesto il mio parere e anche se a volte non era d’accordo su alcune mie scelte, alla fine mi ha lasciato libera, e questo è importantissimo per un qualsiasi giovane regista, poter lasciare un segno, la propria idea di linguaggio».
Il futuro come lo immagina?
«Mi piacerebbe continuare a fare serialità, ma cimentarmi anche in un film romantico e raccontare con ironia la voce di un’italiana a Londra che nonostante tutti i suoi sforzi, gli impegni, la determinazione, la voglia di integrarsi, nel cuore resta una giovane donna della provincia italiana».