Christiane F. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, la serie su Amazon Prime
Quarant’anni fa usciva nelle sale italiane il film “Christiane F. – Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino” (Christiane F. Wir Kinder vom Bahnhof Zoo), un vero pugno nello stomaco firmato dal regista Uli Edel tratto dal racconto autobiografico omonimo di Christiane Vera Felscherinow trascritto dai giornalisti Kai Hermann e Horst Rieck dopo un’intervista durata più di due mesi. Il libro venne pubblicato nel 1978, proprio durante l’esplosione della diffusione delle droghe pesanti, quando l’adolescenza di un’intera generazione venne messa a ferro e fuoco da questa pratica autodistruttiva e terribile, autentica rovina per decine di migliaia di famiglie.
La rivisitazione cinematografica fu un’ovvia conseguenza della diffusione letteraria della storia di questa quattordicenne impantanata nella putrida esistenza che solo l’eroina era in grado di regalare a chi, spesso più fragile degli altri, pensava di trovare un piccolo paradiso artificiale dentro una siringa appuntita che sparava milioni di orgasmi al secondo direttamente in vena e poi su fino al cervello.
Fu un successo planetario, vergato con la sofferenza di chi era sopravvissuto all’oblio e ostentava le sue cicatrici quasi con orgoglio, perché in un modo o nell’altro ce l’aveva fatta. Christiane F. sembrava una parentesi chiusa, invece Amazon ha pensato di costruire una serie di otto puntate con lo stesso titolo, uscita il 7 maggio, che ha destato reazioni contrastanti tra critica e pubblico.
La regia di Philipp Kadelbach è assolutamente fluida, centrata e attuale, pur concedendo qualche frammento ad alcuni rimandi trainspotting che si potevano tranquillamente evitare. L’idea di attualizzare l’intera vicenda inserendo dei commenti musicali anacronistici aiuta, pur con qualche fastidio, a trasportare la narrazione in uno spazio neutro, in modo da poter coinvolgere un pubblico più vasto e meno generazionale.
Oltretutto l’impianto originale che basava la colonna sonora sulle produzioni di David Bowie non è stato stravolto, semmai ampliato. La protagonista è interpretata da Jana McKinnon, che da grande prova di sé assieme alla straordinaria attrice tedesca di origine spagnola Lea Drinda, che offre il volto alla giovane Babsi, nella realtà la più giovane vittima dell’eroina in Europa, e che qui viene raccontata in modo approfondito, così come Axel o Stella, cosa che nel film non era accaduta. I personaggi che Kadelbach ci presenta infatti vanno raccontati ad uno ad uno, sono belli, pieni di speranza, come tutti i ragazzi di quell’età, con i loro sogni e le loro voglie, spesso angustiati da situazioni familiari pesanti, ma pronti a lottare per provare a fuggire da una realtà difficile da gestire. Tutta questa purezza sporcata dalla necessità di prostituirsi per guadagnarsi il “quartino” fa impressione, sostenuta da un “fil noir” che lega esistenze adolescenziali alla morte, che qui ha le sembianze umane di un disc jockey tenebroso e affascinante, in grado talvolta di provare perfino pietà per Christiane, così come di essere l’unico amore desiderato dalla povera Babsi, devastata dal suicidio del padre.
Pur con qualche dubbia giravolta, ogni puntata lascia un segno nell’anima, rimane dentro per ore, il dolore, la sofferenza, la voglia di ricominciare, di ripartire, i volti di questi bambini vissuti troppo in fretta, dimenticati nelle coltri di un’esistenza dura da sopportare, il solito cazzottone che lascia senza fiato, nonostante la maturità, la consapevolezza di quello che è stato degli anni passati e sfuggenti che non ritorneranno più.
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