Il capitalismo ha ufficialmente e irreversibilmente invaso il cinema e l’audiovisivo in generale, costringendo l’uomo a passare il proprio tempo libero isolato nella sua stanza, guardando video scelti per lui da software che analizzano costantemente i dati che egli genera, tra smartphone e computer.
Questa notizia puoi leggerla direttamente sul tuo Messenger di Facebook. Ecco come
E come unica azione di ribellione gli viene lasciata la possibilità di indignarsi con sterili post sui social network.
Siamo in un Panopticon planetario: il Panopticon è il carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Il concetto della progettazione era di permettere a un unico sorvegliante di osservare tutti i soggetti di una istituzione carceraria senza permettere a questi di capire se siano in quel momento controllati o no.
Nel sistema odierno, il sorvegliante è chiunque analizzi big data ed i carcerati siamo noi, utenti inermi, indifesi, utili solo a spendere soldi acquistando servizi o prodotti offertici in base ai dati che noi regaliamo al web.
Era il gennaio del 2017, poco più di un anno fa, quando i due colossi della distribuzione video hanno cominciato a farsi la guerra su scala mondiale per conquistare il mercato audiovisivo. Da questa sfida, che tutt’oggi continua, dipenderà il futuro anche dell’industria del cinema dei prossimi anni.
Questa fase iniziale è stata nettamente vinta da Jeff Bezos, fondatore/presidente/ceo di Amazon, che a luglio 2017 è diventato l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio stimato di 99,7 miliardi di dollari e continua ad esserlo avendo fatto crescere il suo patrimonio (stime di febbraio 2018) a 121,7 miliardi di dollari.
A fine 2016 Netflix aveva poco meno di 90 milioni di abbonati, Amazon Prime Video 65: sono numeri con i quali già quasi nessuno poteva competere, soprattutto se sommati alla velocità della crescita.
Con criteri diversi, i due colossi dominano da anni la distribuzione online e sono diventati produttori di serie e film ai livelli delle più importanti major statunitensi.
I giornali parlavano anche di possibili acquisizioni di Netflix da parte di Alibaba o Apple, per aumentare ancora di più le risorse da investire.
Investimenti che Netflix ha già fatto in maniera molto consistente: nel 2016 ha investito nella sola produzione 5 miliardi di dollari, che sono diventati 6 nel 2017. I più importanti broadcaster europei, con in testa BBC (Sky e Amazon a parte), investono meno di 2 miliardi.
Amazon Prime Video, come Netflix, è sbarcato in Italia poco più di un anno fa, lanciato in 200 paesi.
Tale servizio è attivo negli Stati Uniti già da circa tre anni, ma solo negli ultimi ventiquattro mesi l’azienda statunitense ha aumentato il numero di serie tv e di film disponibili, diventando anche loro una vera e propria casa di produzione cinematografica per fare concorrenza all’altro grande player internazionale.
È notizia di pochi mesi fa quella che Amazon si stia preparando a sparare quella che si potrebbe chiamare la bomba atomica di questa guerra, in grado di stravolgere gli equilibri televisivi internazionali: nel 2020 lancerà in duecento paesi in esclusiva sul servizio Prime Video una serie tratta dall’opera di J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.
La notizia ovviamente ha fatto già il giro del mondo: si tratta di un investimento, su un progetto a lungo termine, da centinaia di milioni di dollari per ogni stagione. Al momento sappiamo che la storia sarà ambientata nella Terra di Mezzo, e narrerà nuove storie che precedono l’opera già raccontata nella pluripremiata trilogia.
Secondo diverse fonti statunitensi, solo per l’acquisizione dei diritti televisivi sembra che Jeff Bezos abbia speso tra i duecento e i duecentocinquanta milioni di dollari: è una cifra senza precedenti, con una portata talmente imponente da rischiare di far scoppiare la bolla di mercato delle produzioni delle serie tv.
Da distributori a produttori imbattibili. Ma da dove nasce la vera, reale forza di Netflix e Amazon rispetto a qualsiasi altro distributore/produttore di cinema?
Nello stesso punto di forza di Facebook e Google nei servizi web: l’analisi dei Big Data. Ogni volta che accendiamo un computer, c’è una regola fondamentale che andrebbe insegnata nelle scuole: SE USUFRUISCI DI UN SERVIZIO GRATUITAMENTE, VUOL DIRE CHE IL PRODOTTO SEI TU.
Netflix e ancora di più Amazon, come Google e Facebook hanno accesso a una quantità industriale di dati personali, privati di ogni persona che usa quel determinato servizio.
Questi dati vengono analizzati unicamente per la promozione di prodotti che possono interessare al singolo utente e al fine quindi di vendere inserzioni pubblicitarie.
L’analisi viene condotta con strumenti specifici, che studiano ed estrapolano profili perfetti di utente e destinatario finale di una determinata operazione di marketing. Netflix non ne fa un segreto e rende pubblica anche la sua metodologia di analisi.
Eccone un assaggio: “Netflix ha analizzato i dati di visualizzazione di oltre 86 milioni di iscritti in più di 190 paesi nel periodo compreso tra gennaio 2016 e ottobre 2016. La ricerca ha esaminato i cambiamenti negli schemi di visione rispetto ai film e alle serie TV.
In questa ricerca, Netflix ha notato che gli abbonati sono passati da una serie (guardando tutte le stagioni a disposizione) all’altra, il 59 per cento delle volte hanno preso almeno una pausa di un giorno con un gap medio di 2,5 giorni. Durante questa pausa, il 61 per cento degli abbonati ha guardato programmi stand-alone (documentari, film o stand-up special) prima di cominciare a guardare la serie successiva.
In totale, il 36 per cento di tutti gli abbonati Netflix ha dimostrato questo comportamento. Gli utenti, per essere inclusi in questa ricerca, non dovevano necessariamente aver completato una serie in un determinato periodo di tempo.
Per individuare gli abbonamenti di film e serie, Netflix ha analizzato più di 100 serie TV per identificare quali film venivano associati più frequentemente in ogni mercato. Gli abbonamenti di film non equivalgono ai numeri dell’audience”.
Anche da questo breve estratto, è facile comprendere che i big data fanno sapere tutto di noi. La sfida quindi, tra l’utente e il mercato, è sempre più impari: da una parte c’è l’individuo, isolato, che non sa cosa ha di fronte e dall’altra vi è un’entità che si connette con miliardi di altre piattaforme e che sa tutto di lui.
Probabilmente queste piattaforme riescono a conoscere i nostri gusti meglio addirittura di noi stessi. L’utente che vuole quindi vedersi un film o una serie, fornisce, oltre al pagamento per il suo abbonamento, i suoi personali, riservati data.
Tale utente quindi è a sua volta produttore e distributore dei propri dati personali sui quali guadagnano miliardi di soldi solo pochissime aziende (i soliti Facebook, Google e Amazon).
È facile quindi capire che gli abbonamenti apparentemente iperconvenienti di Amazon e Netflix (dagli 8 ai 12 euro al mese fino ai 19,99 l’anno), nascondono in realtà un secondo e più significativo costo, perché noi stiamo già pagando con i nostri dati, usi, costumi e consumi personali.
L’utente di qualsiasi servizio online fornisce tutti i suoi dati navigando su internet, con le sue ricerche su Google, le sue amicizie e i suoi like su Facebook, le sue foto ed i luoghi su Instagram, scegliendo film o serie su Netflix e ordinando prodotti su Amazon.
Questi dati, chiamati appunto Big Data, proprio perché sono talmente tanti che servono dei sistemi molto sofisticati per analizzarli, sono il prodotto che viene venduto da questo tipo di società. Dove andrà a finire il cinema in tutto questo?
È una bella domanda e provo a dare una risposta agganciandomi anche a un problema tutto italiano: si pensava che da noi Netflix non avrebbe avuto successo e che sarebbe rimasta intrappolata tra la scarsa copertura della fibra sul territorio nazionale e il fatto che ancora troppe poche persone rispetto al resto del mondo facciano pagamenti con carte di credito sul web.
Invece gli sviluppi si sono rivelati completamente contrari allo scetticismo iniziale.
Oggi gli abbonati sono arrivati, secondo le stime di Ernst & Young che ha incrociato sondaggi con dati forniti dalle aziende, a quota 800 mila abbonati. Mediaset Premium ha 1,6 milioni, il doppio di Netflix, ma è nata quasi 10 anni fa.
Gli americani hanno impiegato un quinto del tempo per arrivare a metà abbonati (va detto che c’è anche una differenza di prezzo: Premium costa il doppio perché offre anche il calcio). Sempre l’Italia ci offre una chiave di lettura su quella che sarà la qualità dei film nel mondo legata a Netflix e Amazon: in Italia, le uniche due case di distribuzione, in pratica, sono le due televisioni RAI e Mediaset.
I film si fanno quindi con i soldi delle due televisioni e ovviamente questi investitori, più che alla sala, sono interessati alla prima serata in televisione. Il risultato è che molti film, più che a film, somigliano a fiction.
Con l’avanzare di Netflix e di Amazon, l’interesse si sposterà invece sempre più su film che facciano comodo a loro (secondo le loro analisi dei nostri dati) guardando, più che alla sala cinematografica, al web e a tutti i prodotti a esso collegati.
Netflix e Amazon capiranno, con le loro analisi, quali saranno i prodotti audiovisivi che avranno più visualizzazioni così da abbinarci la pubblicità più giusta per quel tipo di utente.
Ci saranno sempre più serie e sempre meno film, ma di certo il cinema non scomparirà mai: diventerà un ambiente un po’ più di nicchia, come il teatro, ma non scomparirà mai. Stessa valutazione può essere fatta per la tv generalista: davvero difficile ipotizzarne la morte.
Il grande nodo della questione, difficilissimo da sciogliere, rimane il problema del prezzo del servizio del cinema, che ho anticipato precedentemente chiamandolo “bolla del mercato delle serie tv”: Netflix costa dai 7,99 a 11,99 euro al mese e dà modo di essere visto da più schermi contemporaneamente, comodamente da casa, da ogni singolo membro della famiglia fino a un massimo di 4 persone, mentre Amazon Prime, il quale abbonamento per la visione di film e serie tv è di 19,99 euro l’anno, offre anche il vantaggio di ricevere gli ordini su Amazon in 1 giorno di tempo.
Una qualsiasi famiglia tipo, per esempio romana, di 4 persone che voglia vedersi un film al cinema (nel weekend ovviamente, quando sono liberi da impegni ed a patto che tutti i 4 si mettano d’accordo per vedere lo stesso film) deve pagare € 8,50 x 4 (costo del biglietto) + € 2,80 + € 2,20 + € 2,20 + € 2,20 (costo del parcheggio con tariffa presa da Piazza Cavour a Roma) + minimo € 10,00 tra patatine, popcorn e Coca Cola = minimo € 53,40 (senza prendere in considerazione un eventuale hamburger dopo il film..).
I due costi sono enormemente diversi, con un rapporto prezzo/comfort nettamente a favore di Netflix e Amazon Prime, ma con la differenza che, lasciatemelo dire, vedere un film al cinema ha un’atmosfera di sacralità che il computer non avrà mai.
L’unico punto in comune che hanno sia il costo dell’abbonamento di Netflix e Amazon Prime, sia il biglietto del cinema è che ambedue le entrate non costituiscono il guadagno reale né di Netflix né dell’esercente di cinema: il primo guadagna sulle pubblicità (Amazon anche sugli ordini), il secondo sui popcorn e le bibite.
Sodato l’incredibile risparmio economico del web rispetto al cinema, qual è, in sostanza, il prezzo non economico bensì sociale di questo stile di vita?
Da utente sia di Netflix, sia di Amazon Prime, sia di cinema (e aggiungo anche di Sky..), il costo di questo nuovo modo di esistere è un immobilismo del singolo individuo e quindi anche la sua passività nei confronti di ciò che vede e di ciò che accade nel mondo: siamo allegoricamente immersi in un mito della caverna di Platone planetario.
Amazon, più di Netflix, è la giusta metafora per spiegare il mondo del 2018: tutto nasce con “l’orto”, si trasforma con “i supermercati” e si conclude con “le consegne a domicilio”: in origine ognuno curava il proprio orto e si nutriva di ciò che coltivava: questo modo di esistere favoriva la creazione della propria identità ed incentivava confronti basati sulla propria esperienza.
L’intrattenimento tipo di questo modo di vivere era il cinema, luogo dove ci si recava in massa, come per assistere ad una messa ancora più popolare. Con la nascita dei supermercati, il singolo individuo ha cominciato a spostarsi, sempre in massa, verso luoghi dove vi era possibile comprare tutto ciò di cui si aveva bisogno.
L’intrattenimento tipo di questo stile di vita era la televisione, arena che non permetteva già più confronti e che riuniva microcosmi familiari sul divano della sala di qualcuno. Oggi siamo nella fase che io chiamerei delle “consegne a domicilio”: il singolo individuo non coltiva più il suo orto, non esce più di casa per andare al supermercato, perché qualsiasi suo bisogno viene appagato da qualcuno che pensa al posto suo.
L’intrattenimento simbolo di tutto questo sono quelle che in gergo si chiamano OTT (sigla che sta per Over the top), ovvero canali televisivi a pagamento (ma anche gratuiti), con pacchetti a tema (film, sport o serie tv) che non sono trasmessi attraverso il tradizionale “tubo catodico” ma tramite lo streaming, che si può vedere su qualunque apparecchio connesso a internet, dallo smartphone ai tablet e allo stesso computer.
Amazon Prime Video e Netflix, appunto.
Analisi a cura di Francesco Bruschettini
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