Lucha y Siesta a rischio sgombero. E il Comune di Roma non risponde
Sulla porta d’entrata, verde chiaro, è attaccato uno striscione. Sopra c’è scritto: “La violenza di genere riguarda anche te. Lucha y Siesta non si vende”. Le pareti dell’ingresso sono piene di biglietti, manifesti, foto. Una bacheca fissa le attività e gli spazi della casa: lo sportello antiviolenza, il sostegno psicologico e il corso di formazione sulla violenza maschile. Le lezioni di inglese e di teatro. Il cineforum, che d’estate riempie il giardino, con le sedie portate fuori, un telone come schermo e una rassegna di film che la sera richiama il quartiere al civico 10 di via Lucio Sestio, a Roma.
“Lucha è complessa. È una casa rifugio per donne e bambini ma anche uno spazio di aggregazione, cultura e dibattito. Un progetto di costruzione collettiva di un mondo senza violenza maschile sulle donne e ancora un luogo di ascolto e confronto”, spiega a TPI Mara. Da Lucha, Mara si occupa della biblioteca. È una stanza piccola ma i libri arrivano fino al soffitto, dove è stata dipinta una frase di Virginia Woolf: “Non c’è cancello, nessuna serratura, nessun bullone che potete regolare sulla libertà della mia mente”.
Due colonne di scaffali sono dedicati alla storia del femminismo, poi la saggistica, la narrativa, la filosofia. Alcuni libri sono stati regalati, altri li hanno lasciati gli editori nelle rassegne culturali che la casa ha ospitato, come quella sul rapporto tra donne e fantascienza, una delle ultime. Quando è arrivata la notifica che il 15 settembre il Comune di Roma staccherà le utenze e darà avvio allo sgombero, Lucha è stata travolta dalle manifestazioni di solidarietà. “In molti passano qui e ci chiedono come possono aiutare. Alcuni signori di un circolo vicino hanno stampato dei cartelloni contro la chiusura e li hanno attaccati per il quartiere”, continua Mara.
La Casa delle Donne Lucha y Siesta nasce nel 2008 dal recupero di una palazzina degli anni Venti di proprietà dell’Atac, l’azienda pubblica del trasporto romano ora passata sotto il controllo del curatore fallimentare. È un edificio nella zona di Cinecittà, nato come stazione della ferrovia che collegava Roma ai Castelli romani e in disuso dagli anni Novanta. “Abbiamo recuperato un luogo abbandonato e lo abbiamo trasformato, reso utile. Vivo. È diventato uno spazio di autodeterminazione per le donne e di socialità, un bene comune e un punto di riferimento nel territorio”. In undici anni, nelle stanze della casa sono passate più di mille donne, in centinaia si sono rivolte al suo sportello antiviolenza e centoquaranta ci hanno vissuto insieme a sessanta minori. Ci sono quindici posti letto, una percentuale importante in una capitale che, secondo la Convenzione di Istanbul di cui l’Italia è firmataria, dovrebbe averne trecento e, invece, si ferma a venticinque.
“Da anni cerchiamo un dialogo con il Comune e nessuna delle amministrazioni ci ha mai ascoltato”, continua Mara. “Abbiamo chiesto incontri, fatto proposte ma nulla. La sindaca Raggi non è mai venuta e l’accelerazione dei tempi dello sgombero ci fa pensare che ci sia già un acquirente, anche se non c’è mai stata l’asta pubblica”. Adesso, a essere ospitate sono quindici ragazze con sette bambini, che rischiano di dovere cambiare scuola, oltre che casa. Il Comune ha promesso soluzioni alternative, che non ha ancora specificato.
“Pensare di mandarle via significa non tenere conto del percorso che hanno avviato. Alcune hanno trovato un lavoro, i loro figli sono inseriti nei servizi dell’infanzia del territorio. Vanno a scuola nel quartiere, qui hanno i loro amici. È impensabile sradicarli, ancora di più a ridosso della riapertura dell’anno scolastico”, spiega Mara.
A Lucha, una donna che viene da un passato di violenze maschili è aiutata a costruire un percorso di rinascita personale. Il progetto di ospitalità e accoglienza è pensato a partire dalle individualità, necessità e tempi di ogni singola donna. Che può essere trovare un lavoro, prendere un titolo di studio, riposare e ripartire. “È un processo di autodeterminazione e di libertà. Quanto ci vuole, un anno, due anni? Va bene lo stesso. Non mandiamo via nessuno”. Un esperimento riconosciuto anche dalle istituzioni perché il paradosso è che Lucha viene chiusa dagli stessi che ne riconoscono la validità dei metodi.
“È un luogo di pratiche femministe che si fanno metodo, politica e sapere”, dice a TPI Anahì, che alla casa delle donne fa l’operatrice ma che è anche un’artista. A Lucha si è avvicinata quando ha iniziato a riflettere su come la sua arte avrebbe potuto parlare di violenza di genere. “Volevo farlo bene, senza ricadere nei soliti stereotipi sulle vittime. Qui ho imparato che la violenza si contrasta in molti modi, anche con il linguaggio, la cultura, l’arte”. Quello che fa Lucha, che lavora sul piano dell’ascolto e della cultura, dell’accoglienza e dell’immaginario.
“Lucha è non fa solo assistenza e sportello. È uno spazio di autodeterminazione e sorellanza”, dice Anhai. “Non la lasciamo andare. Piuttosto, ce la compriamo”.
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