Sabato 16 aprile a
Nakuru (Kenya) si è tenuto un grande rally pubblico, in diretta per
diverse ore su tutti i principali canali televisivi, con discorsi di
uomini politici e preghiere guidate da leader religiosi. Il tutto per
celebrare il fallimento delle giustizia nazionale ed internazionale.
Infatti pochi giorni prima la Corte Penale Internazionale (CPI) aveva
sospeso per mancanza di prove il processo al Vice-Presidente William
Ruto e al giornalista Joshua Arap Sang, accusati di crimini contro
l’umanità avvenuti durante il caos post-elettorale del 2008.
La crisi scoppiò dopo
le elezioni presidenziali del 27 dicembre 2007 quando l’allora
presidente uscente Mwai Kibaki fu dichiarato il vincitore, e il
candidato dell’opposizione Raila Odinga accusò di frode la
commissione elettorale e lo stesso Kibaki, rifiutando il risultato.
Ne seguirono tre mesi di violenze a forte connotazione tribale, prima
che l’intervento delle Nazioni Unite riuscisse a mediare, ottenendo
per Odinga un posto di Primo Ministro, inesistente nelle costituzione
allora vigente. In quelle violenza furono brutalmente ucciso almeno
1.100 persone e si crearono piu di 600.000 sfollati, quasi tutti
kikuyu, l’etnia di Kibaki. Queste le cifre ufficiali, ma
probabilmente i morti furono molti di più.
La Kenya dopo molte
controversie non trovò i meccanismi necessari per condurre
un’indagine credibile su chi avesse organizzato le violenze, e il
caso venne deferito alla CPI, basata a L’Aia. Nel 2010 la CPI convocò
sei persone, tutte accusate di crimini contro l’umanità: il vice
primo ministro Uhuru Kenyatta, il ministro dell’Industrializzazione
Henry Kosgey, il ministro dell’Istruzione William Ruto, il segretario
del governo Francis Muthaura, il giornalista Joshua Arap Sang e l’ex
commissario di polizia Mohammed H. Ali. Al momento della violenza
Uhuru Kenyatta e William Ruto erano stretti collaboratori
rispettivamente di Mwai Kibaki e Raila Odinga. Tre degli indagati
erano rappresentanti del governo e tre dell’opposizione. Questo
accurato bilanciamento è stata considerata una scelta della CPI
dettata da motivazioni politiche, per evitare di convocare coloro che
erano in quel momento presidente e primo Ministro, che avrebbe
certamente fatto ripiombare il Kenya nel caos.
I casi contro H. Kosgey,
F. Muthaura e M. H. Ali vennero ritirati dopo pochi mesi. Nel marzo
2013 Uhuru Kenyatta fu eletto Presidente e William Ruto Vice
Presidente. Con una mossa ardita i due nemici si erano uniti prima
delle elezioni per sconfiggere Raila e misero la CPI nell’imbarazzo
di dover giudicare un presidente e il suo vice, col rischio in caso
di condanna, di decapitare un paese. Il nuovo governo e l’Assemblea
Nazionale tentarono in modi diversi di bloccare la CPI, e cercarono
alleati in tutta l’Africa, minacciando il ritiro non solo del Kenya,
dal Trattato di Roma, che è il fondamento giuridico della CPI. In
dicembre 2014, la causa contro il presidente Uhuru Kenyatta venne
chiusa per mancanza di prove. Poi, uno dopo l’altro, le persone che
avevano inizialmente testimoniato contro i sei imputati, ritirarono
la loro testimonianza o si resero irreperibili. Infine, come già
detto, la settimana scorsa il CPI ha chiuso i casi di William Ruto e
Joshua Arap Sang, e, per non ammettere completa sconfitta, ha chiesto
al Kenya di estradare tre altri personaggi minori con l’accusa di
aver intimidito o corrotto i testimoni per ritirare le accuse.
I commenti immediati in
Kenya sono stati inizialmente euforici e celebrativi. Tutti, anche
gli avversari politici del vice-presidente, temevano che una conferma
delle accuse avrebbe potuto scatenare violenze. Ma poi i minacciosi
“Abbiamo vinto!” ripetuti da molti membri del gruppo etnico
di Ruto, i Kalenjin, sono parsi forieri di ulteriore violenza
sopratutto in vista della campagna elettorale del prossimo anno.
Maina Kiai, notissimo avvocato e saggista, ha scritto che il
presidente e il suo vice “hanno dimostrato di poter utilizzare
denaro, potere e influenza per bloccare un tribunale internazionale”,
e Gabriel Dolan, missionario irlandese, ha sottolineato che
“festeggiamenti stravaganti per celebrare la fine di un processo
viziato da ingerenze politiche e da interferenze con i testimoni,
sono di cattivo gusto, come ballare sulle tombe delle vittime”.
Altri, notando che lo stadio Afraha in cui si è svolta la
manifestazione è stato per più di un anno il rifugio per di
migliaia di vittime della violenza hanno denunciato che “anche
per gli standard di moralità pubblica del Kenya, la scelta di un ex
campo di sfollati per festeggiare la vittoria di persone collegate
con la sofferenza degli stessi sfollati può sembrare bizzarra”.
L’assurdità della
situazione è evidenziata dalle dichiarazioni di Raila Odinga, che
indubbiamente ha ispirato gran parte della violenza scatenatasi in
quei tre mesi terrificanti del 2008 con i i suoi discorsi e le sue
chiamate a “mass action”, Raila ha detto: “Uhuru e
Ruto devono smetterla con questa continua presa in giro delle vittime
della violenza post-elettorale, e devono guidare questa nazione verso
la verità e la riconciliazione, per salvarci da ciò che sta
rapidamente diventando una discesa irreversibile verso un’altra orgia
di violenza “. David Kariuki, che al quel tempo era un ragazzino
terrorizzato nascosto in una casa per ex-bambini di strada, guarda
incredulo il giornale che riporta la dichiarazione di Raila e chiede
ad alta voce “Crede davvero che abbiamo dimenticato i suoi
discorsi? E che Ruto era il suo assistente?”
La vittoria
dell’impunità
I vescovi cattolici ha
detto in una dichiarazione congiunta che il cammino verso la
giustizia è tutt’altro che finito. “Il trauma della violenza
non è stato completamente guarito. Molte delle vittime violenza
post-elettorale non hanno ottenuto giustizia. Noi sollecitiamo il
governo nazionale e le amministrazioni locali ad offrire soluzioni
alle vittime attraverso la compensazione e programmi di
riconciliazione.” Le parole non sono molto forti, ma bisogna
notare che nessun vescovo o pastore della Chiesa Cattolica,
dell’Africa Inland Church e della Chiesa Presbiteriana ha partecipato
alla celebrazione nella stadio Afraha di Nakuru.
Compensare le vittime e
accelerare la giustizia per i singoli casi di violenza e omicidio che
sono stati avviati nei tribunali locali, è ovviamente un impegno che
il governo dovrebbe assumersi con più determinazione. Eppure, il
problema è che gli organizzatori – chi era in Kenya in prima e
dopo le elezioni è certo che si tratto di violenza pianificata con
buon anticipo – non sono stati assicurati alla giustizia e
potrebbero ripetere le loro azioni impunemente durante il prossimo
turno elettorale.
“Chi è
responsabile della morte di mio marito e di due dei miei figli? Dov’è
la giustizia?” chiede una donna angosciata ai microfoni di una
radio locale. Nessuno sembra essere interessato a rispondere. Si
parla molto di compensare le vittime, gli sfollati che hanno peso
quel pezzo di terra che garatniva il sostentamento della famiglia, e
poi “andare avanti senza guardare indietro”. Nessuno parla di
trovare la verità, di identificare gli organizzatori di tre mesi di
follia criminale. Forse è una verità troppo scomodo per molti
politici di alto livello.
In effetti, il
risultato più evidente del fallimento della CPI di identificare i
colpevoli, è che il cittadino medio del Kenya è più che mai certo
che il potenti e i ricchi continueranno ad essere al di sopra della
legge. Interrompere la cultura dell’impunità è stata la ragione
principale per i rappresentanti della società civile per chiedere
nel 2010 l’intervento della CPI. Ora che anche un tribunale
internazionale ha dovuto dichiararsi sconfitto, i keniani, anche
quelli che hanno riempito Afraha stadio con preghiere, canti e
discorsi uno strano “show degli innocenti”, devono davvero
impegnarsi a superare il tribalismo e la corruzione, per evitare il
rischio di un conflitto ancora peggiore di quello del 2008.