Ue plastica Africa | Se tutto andrà bene in un paio d’anni i singoli Paesi europei cominceranno a ragionare seriamente sulle modalità per vietare l’uso di confezioni in plastica per prodotti che possono prevedere un packaging alternativo.
L’accordo in tal senso, raggiunto a Bruxelles un paio di mesi fa, prevede che per proseguire sulla strada della salvaguardia dell’ambiente dall’accumulo inutile di plastica, gli Stati membri debbano approvare singolarmente le misure alternative. Due anni sono un tempo lunghissimo in questa corsa verso l’ultimo miglio. Non c’è bisogno di avere il piglio dei catastrofisti per dirlo. Bastano i numeri.
L’80 per cento dei rifiuti gettati in mare sono costituiti da plastica. E non rimangono lì. Così se l’anno prima i pesci si erano nutriti del sacchetto con cui avevamo fatto la spesa o della cannuccia del nostro drink, probabilmente l’anno dopo porteremo a casa il pesce e in più la borsa della spesa e la cannuccia che avevamo gettato via.
Ma mentre l’Europa sta ancora dibattendo sulla questione, l’Africa tenta di porre rimedio alla montagna di plastica che ha invaso ormai il continente e ha da tempo raggiunto livelli di saturazione.
Kenya, Rwanda, Mauritania, Eritrea, Tanzania hanno approvato (e lo applicano) da tempo il divieto dell’uso della plastica nei confezionamenti ma anche la loro produzione.
Per molti di questi Paesi – una quindicina in tutto – il divieto è già in vigore dal 2017 e alcuni, come il Kenya, hanno avviato una discussione sulla necessità di limitare i danni della plastica, già dieci anni fa.
A fare da apripista è stato il Rwanda, che nel 2008 ha emanato le legge sul divieto della plastica ed è inoltre il Paese dove tale divieto è implementato seriamente.
Le pene previste sono l’arresto ma anche il pubblico biasimo. In Africa il problema dell’inquinamento da plastica è più visibile per due fattori principali: il primo è l’insufficienza nella gestione dei rifiuti – non è difficile assistere al banchetto su cumuli di immondizia (e plastica) di capre o bovini, l’altro è l’economia globalizzata che ha messo sul mercato – ormai da decenni – prodotti imbustati, imballati, impacchettati.
A questi fattori ne va aggiunto un altro, quello dell’invio nei Paesi africani di materiale da “regalare”, offrire alle ONG, donare a scuole, ospedali, centri vari.
Negli ultimi 65 anni la produzione annuale di materie plastiche a livello globale è aumentata di oltre 200 volte. Considerando che la plastica è stata inventata alla fine del 19esimo secolo (ma la produzione ha preso il volo solo verso il 1950) ci sono oggi qualcosa come 9,2 miliardi di tonnellate di materiale da gestire – ha scritto recentemente il National Geographic.
Di questo, più di 6,9 miliardi di tonnellate sono diventati rifiuti. E di questi rifiuti, 6,3 miliardi di tonnellate non sono mai arrivati a un contenitore per il riciclaggio.
Vale la pena ricordare che i maggiori Paesi produttori di plastica: Regno Unito, Cina, Stati Uniti, non hanno ancora leggi che ne inibiscono l’uso.
Al contempo ne hanno incrementato negli anni la produzione e l’esportazione, spesso presentata come “invio differenziato per il riuso”.
Liberarsi della plastica in sovrappiù e soprattutto dai rifiuti in plastica, è un grosso problema per i Paesi cosiddetti industrializzati.
La maggior parte dei rifiuti degli USA, per esempio, fino al 2018 è andata verso Tailandia, Malesia, Vietnam, Cina.
Ma dallo scorso anno proprio la Cina ha vietato l’ingresso di rifiuti di plastica provenienti da altri Paesi. Dove andranno ora questi rifiuti? Chiuse le frontiere cinesi ci sarà – secondo gli esperti – un surplus di 111 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica in più da gestire entro il 2030.
Solo una ventina di anni fa in Africa la plastica non era d’uso comune, oggi – introdotta dall’economia avanzata – bisogna trovare i mezzi per liberarsene. Iniziative private hanno mostrato la volontà e la creatività delle giovani generazioni.
Alla semplice raccolta differenziata (e rivendita per il riutilizzo) delle donne dei mercati si sono aggiunte piccole iniziative imprenditoriali: dall’uso delle bottiglie di plastica per costruire recinti e piccole abitazioni alla realizzazione di borse, accessori, tappeti e anche cuscini, utilizzando bustine di plastica, fino al riuso di ogni tipo di materiale per opere artistiche.
Opere di implicita denuncia del disastro in corso. Iniziative piccole, lontane dai clamori di una società dei consumi che sta scoppiando e che continua a esportare nel continente africano la sua parte peggiore.
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