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Siria, ucciso padre François

Conosciuto il giorno del nostro rapimento, il prete sembrava sconvolto: aveva appena ricevuto delle minacce dai qaidisti

Di Susan Dabbous
Pubblicato il 26 Giu. 2013 alle 16:26

Parlava italiano padre François Murad, ucciso il 23 giugno scorso in Siria con un colpo d’arma da fuoco, ma ci teneva a specificare che era un siriano puro. Carnagione olivastra e tratti tipicamente arabi, accolse me e tre colleghi giornalisti nel villaggio cristiano di Ghassanie, il tre aprile scorso, poche ore prima di essere rapiti dal gruppo qaidista Jabhat al Nusra. Gli chiedemmo un’intervista e rifiutò con toni duri: «A cosa serve? – rispose – . Il mondo sa cosa succede in Siria eppure nessuno muove un dito». Padre François era rimasto, solo, nel villaggio di montagna completamente abbandonato dalla popolazione civile, bombardato sia dal cielo che da terra. Le finestre della sua casa avevano i vetri esplosi, le pareti, piene di crepe, si tenevano in piedi a stento.

A Ghassanie, a pochi chilometri da Latakia, da circa tre mesi si erano infiltrati gli jihadisti che lo controllavano a vista, fino a dicembre invece la convivenza con l’Esercito siriano libero era stata pacifica e rispettosa. Ci mostrò la chiesa di San Simeone lo Stelita. Era stata appena dissacrata. Ad aspettarci fuori dal luogo sacro trovammo poi i fondamentalisti armati. Durante l’interrogatorio che precedette il nostro “arresto”, l’impianto accusatorio di Jabhat al Nusra vedeva padre François come il prete “spia” che telefonava ai giornalisti stranieri per denunciare “falsi soprusi”. Durante la detenzione passai alcuni giorni con la moglie di uno dei miliziani: «Perché vi siete fidati di quel prete? – mi disse -. Non lo sai che i cristiani sono bugiardi?».

Il giorno prima del nostro arrivo padre François aveva ricevuto delle minacce. Gli chiedemmo perché stesse ancora lì. «Sono un uomo di chiesa – rispose – rimarrò a proteggere i nostri luoghi sacri fino alla fine». Aveva un atteggiamento testardo, tra l’eroico e l’incosciente, rispondeva a tono e sembrava non aver paura dei qaidisti. Non sorprende quindi la ricostruzione fatta da Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, l’ordine di padre François: il religioso si sarebbe opposto agli islamisti durante un saccheggio nel convento di Sant’Antonio, a Ghassanie, dove si trovava assieme ad alcuni frati francescani e altri fedeli.

Durante la detenzione ho pensato che padre François non avesse fatto nulla per salvarci dai rapitori, non ci avvisò che eravamo in pericolo. Arrivai a ritenerlo responsabile, in parte, della nostra terribile disavventura. I sensi di colpa che provo oggi per questi pensieri superficiali, elaborati sull’onda dell’emotività, non mi impediscono di fare un’anilisi più lucida: il religioso non ci mise in guardia perché aveva perso i punti di riferimento, era instabile psicologicamente. La sua instabilità era dovuta allo stato di costante pericolo in cui viveva da mesi. Mi sono bastati 11 giorni a Ghassanie per speriementare cosa significa dormire col sottofondo delle bombe (vicine) che fanno vibrare le pareti. All’inizio ti svegli col cuore in gola, bevi un bicchiere d’acqua per farti passare la tachicardia, poi ti abitui e ti giri nel letto per cercare una posizione più comoda. Ti culli nell’idea che sei al sicuro, che il pericolo è fuori e tu sei dentro, al sicuro. Abituarsi alle bombe è una cosa malsana, è una strategia di sopravvivenza temporanea che porta però ad accumulare un forte stato di tensione interna. Qualcosa che si può poi manifestare con il cosiddetto “disturbo post traumatico da stress”.

Padre François si sarebbe dovuto allontanare da Ghassanie per salvarsi ma non lo ha fatto, voleva presidiare i suoi luoghi sacri, chiese di una cristinaità in fuga dalla Siria dei talebani. Una Siria momentanea, irriconoscibile, aberrante. Una Siria con i mesi contati perché i siriani non sono così. L’ho spiegato già in un precedente post in questo blog, i siriani odiano al Qaeda. Lo sapeva bene padre François che voleva ricostruire il tessuto sociale multiconfessionale siriano, ce lo spiegò col suo italiano piluto, fluido, non scalfito dai tanti anni passati lontano da Roma.

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