Appena tornata dall’India dopo un viaggio di dieci giorni spesi principalmente a Delhi mi ritrovo a Beirut a interrogarmi con i miei amici su cosa mi abbia colpito di più di questa esperienza straordinaria, a tratti surreale, che ho avuto la fortuna di vivere. In primo luogo la “stranezza” tutto è diverso, l’aria ha un odore particolare, indescrivibile, il cibo autenticamente indiano è molto lontano “dall’indiano” che ci concediamo saltuariamente per dare un tocco esotico a una serata. Poi ci sono i colori degli abiti delle donne, tutte eleganti, ricche e povere, avvolte nei loro splendidi sari. Ho girato poco, devo ammettere, ma ho avuto la fortuna di fare una full immersion nella società indiana.
“Tu sei indiana?” mi sono sentita chiedere molte volte sia in inglese che in hindi da tantissime persone, tassisti con e senza turbante, venditori di pashmine del Kashmir, decoratrici di mani con henné. “No, sono italiana”, ho sempre risposto. “Ma proprio italiana?”, hanno indagato più o meno tutti insoddisfatti dalla mia risposta. “No, mio padre è siriano”. “Aaaah! Ecco”. Curiosità appagata, fine della storia. Niente: “c’è la guerra nel tuo paese?”, o “hai ancora la tua famiglia lì, come stanno i tuoi parenti?”.
Devo dire che è stato bellissimo, fare finta che venivo dalla Siria, un paese normale. Così mi sono ritrovata a disquisire con una gioielliera dell’arte orafa siriana davanti al mio inseparabile braccialetto finito sotto la sua attenta osservazione. L’ho comprato diversi anni fa al mercato dell’oro di Aleppo, in quel suq del 1200 patrimonio dell’umanità dell’Unesco distrutto, incendiato, esattamente un anno fa da un gruppo di ladri autodefinitesi ribelli dell’esercito libero.
Ma questo lo ometto, perché con la gioielliera di Delhi parliamo di come la tradizione indiana e siriana si somiglino: lo sposo compra i braccialetti in oro puro per la futura sposa prima del matrimonio. Devono essere multipli di tre (tre, sei, nove) e tutti identici. La gioielliera mi fa vedere i bracciali indiani, molto simili a quelli siriani “ma i nostri sono diversi”, dico con un certo orgoglio.
Lei annuisce “per via delle decorazioni in rilievo” dice indicando il gioiello. Esco dalla sua bottega con una statuetta in giada di Ganisha, i bracciali d’oro li compro solo in Siria, nella mia Siria, un paese normale, senza la guerra.
Una volta in strada prendo un taxi, stavolta sono in compagnia del mio ragazzo dall’aspetto inequivocabilmente inglese. Il tassista chiede di dove siamo: “Londra” risponde Richard, con la voce che mal nasconde il tipico senso di colpa dell’ex colonizzatore, “Roma” dico io con fare spensierato di chi è senza fardelli storici. “Tu sei inglese – fa lui – ma tu non sei italiana”. Ci risiamo. “Sono per metà siriana”, spiego, usando un’espressione che mi fa un po’ senso, (immagino me spaccata in due come la mela di Platone).
“Ah, Roma, Roma, bella Roma, ho un amico in Italia. Ma quanto dista la Siria dall’Italia in macchina?”. Ehm, bella domanda, dico che non si può fare, perché c’è di mezzo il Mediterraneo. “Sono solo tre ore di volo”, taglio corto. “Ci sono voli diretti da Roma a Damasco?” chiede lui, ansioso di ricollocarmi etnicamente in mezzo ai miei simili. “Sì”. Perché dire che la sede della Syrianair a via Barberini ha le serrande abbassate da più di un anno, una volta capito che in India posso far finta di venire dalla Siria, un paese normale, perché torturarmi con una realtà di cui scrivo quasi quotidianamente?
Il gioco di venire dalla Siria, un paese normale, è durato finché un giorno non ho incontrato Moska Najib, una ragazza afghana rifugiata a Delhi da quando suo padre, Mohammed Najib, ex presidente dell’Afghanistan, è stato assassinato dai talebani nel ‘96.
Ci conosciamo in una circostanza allegra e festosa, siamo a un matrimonio. “Piacere” diciamo entrambe avendo sentito parlare molto l’una dell’altra. “Così sei siriana, di dove?”, chiede con un sorriso discreto. “Di Aleppo”, rispondo io con un tono di voce neutro, come se stessi parlando del tempo. “Mi spiace molto per tua città, Susan” afferma con indubitabile sincerità.
Il mondo si ferma per un lungo istante.
Resto imbambolata e silente. Avrei voluto risponderle: No Moska, sono io ad essere dispiaciuta per la tua città, per i 30 anni di guerra che hanno devastato il tuo stupendo paese sinonimo solo di morte e aberrazione nello scenario collettivo.
E invece no, era lei, un’afghana, a “compatirmi” nel senso buono del termine. Le sue parole hanno aperto un abisso, un abisso lungo 30 anni di guerra civile e incivile, nazionale e internazione, in cui la Siria potrebbe sprofondare. Aleppo come Kabul, la Siria come l’Afghanistan? È facile da dire in teoria, ma come nel caso di un figlio drogato, i genitori sono sempre gli ultimi a sapere, così è un per un paese in guerra i suoi abitanti provano a negare l’evidenza fino alla fine. Avrei voluto dire: no guarda bella ti sbagli, mi spiace molto per voi, ma noi siamo diversi, (come i braccialetti) da noi finirà prima.
Sì, sì, c’è la guerra, ma “andrà tutto bene”. Sì, sì, mi hanno rapito, ma “è andato tutto bene”. Con Moska però la messa in scena della Siria, un paese normale, non funziona. È uno specchio troppo realistico dove vedo infrangersi quella magia. Tornata a Beirut riposo dopo il lungo viaggio. Qui non rischio nessuna illusione, i sogni sulla Siria funzionano solo a occhi chiusi.
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