“Da Majimoto sono partita nel 1985, avevo 18 anni, e sono andata a vivere a Nairobi, nel quartiere di Kawangware. La vita non è stata quella che ho sognato. Ho avuto tre figli, poi il mio uomo è morto. Già eravamo poveri e vivere è diventato ancor più difficile. Son tornata qui nel 2000, credendo di potermi reinserire. Ma non c’era speranza, e son tornata a Nairobi. I miei figli hanno imparato a vivere fuori casa. Li vedevo sempre più raramente… Ora sono felice di essere qui, due dei miei figli hanno imparato la strada di casa, forse loro riusciranno a fare quel ritorno che per me non è stato possibile.”
Majimoto è un villaggio nel nord della Tanzania, vicino al parco del Serengeti. Da Nairobi ci vogliono oltre una decina d’ore d’auto. Sette per arrivare al confine, attraversando successivamente il fondo della Rift Valley, i campi di grano di Narok, le piantagioni di te di Sotik e Kisii, e poi le piantagioni di canna da zucchero di Migori. Un paesaggio verdissimo, di grandi colline, che si apre su ampi orizzonti. Poi, dopo il confine a Isebania, due ore di paesaggio sempre più aperto, fin quasi a Musoma, sul lago Vittoria, e infine due ore di imprevedibile strada sterrata.
In questo ritorno al villaggio, con Boche (“miele” in lingua locale), la salute minata da una vita difficile, sono venuti anche due dei suoi figli, P., 20 anni, all’ultimo anno di scuola superiore, e W., 18 anni, secondo anno di scuola superiore. C’erano anche John, operatore sociale di Koinonia, e un amico italiano. Son stati P. e W. a volere questo viaggio, per riconnettersi alle loro origini. Il ricordo del padre si è perso nelle nebbie della prima infanzia, e non hanno mai conosciuto la sua famiglia. Se per tutti è importante avere delle radici, lo è ancora di più in Africa, dove essere parte di un villaggio, di un clan, di un popolo è indispensabile per poter dire di esistere.
P. e W. sono stati recuperati della strada nel 2006, dagli operatori sociali di Koinonia. Sono entrambi timidi, riservati, di poche parole. Portano sempre il peso del loro passato. Al villaggio della mamma erano già tornati una volta, quattro anni fa, usando mezzi pubblici. Adesso al villaggio hanno ritrovato quattordici zii e un numero incalcolabile di cugini, dato che alcuni zii hanno diverse mogli. La loro guida per cercare di capire i complicati legami familiari è stato lo zio più giovane, diciannovenne, sposato da pochi mesi. La nonna, una donna coi capelli bianchi ma ancora forte, li ha abbracciati quasi piangendo “Temevo non vi avrei più visto”.
Il salto culturale fra Nairobi e Majimoto, dove non ci sono acqua potabile e corrente elettrica e dove nei giorni di pioggia, come in questa stagione, non si può far altro che restare nelle capanne a chiacchierare, è stato grande. I due fratelli sono sentiti accolti, amati. Gli zii hanno entusiasticamente assicurato che quando torneranno per stabilirsi definitivamente al villaggio, verrà loro assegnato un grande appezzamento dove potranno stabilirsi con mogli – nella nostra tradizione, hanno precisato, se ne possono avere fino a otto – e figli. P. ha notato come ci sia un grande rispetto delle persone. Un mattino, andando insieme ad uno zio a visitare i suoi campi, hanno trovato dei ragazzi di un villaggio vicino che stavano mangiando dei frutti. “A Nairobi li avrebbero ammazzati di botte” dice P., qui invece lo zio ha solo rimproverato i ragazzi, e poi ha spiegato ai due fratelli che se una persona ha fame ha diritto di mangiare tutto quello che trova, a patto che non porti via niente. Mangiare sul posto non è rubare.
Tuttavia alcuni aspetti che si ricordavano vagamente dalla visita precedente e che magari hanno studiato sui libri di scuola, nella vita reale si dono dimostrati difficili da interiorizzare. Il giorno dell’arrivo, W., mentre parlava con alcuni dei cugini della sua eta, è svenuto, cadendo a terra, rigido come un tronco, lui che è un bravissimo acrobata.
Non credo che P. e W. torneranno mai a vivere stabilmente a Majimoto. Eppure sono sinceri quando dicono che adesso che conoscono bene la strada ci torneranno più spesso, e quando si saranno sistemati a Nairobi, con una moglie e due o tre figli, precisano, cercheranno di introdurre dei miglioramenti nella vita del villaggio della loro mamma.
Nel viaggio di ritorno ho ricordato ai due fratelli ciò che mi ha insegnato un missionario che ha evangelizzato un’intera provincia del Sud Sudan nella prima metà del secolo scorso: quando sei di fronte a situazioni nuove e difficili, parla poco, non giudicare neanche in cuor tuo, ascolta molto, cerca di capire perché ci sono sempre delle ragioni anche per i comportamenti apparentemente più strani. Ringrazia Dio quando la gente accetta di condividere con te la sua vita. Accontentati di essere presente, e di amare.