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Qualche cosa che ricordo su Giulio

E se fossero stati gli altri, l'anomalia italiana?

Di Livio Ricciardelli
Pubblicato il 6 Mag. 2013 alle 16:05

Ed è arrivato quel giorno. Perché nella storia non ci sono stati solo editoriali satirici di “Cuore”,’inserto settimanale de “L’Unità”, in cui si predicava, tra le cose per cui valeva la pena vivere, “la fine politica di Giulio Andreotti”.

No, non c’era solo questo. Ma anche la domanda su “che giorno sarà il giorno in cui morirà Andreotti”?

Per quanto mi riguarda ci sono delle personalità pubbliche di cui non mi capacito della morte. Sono persone che non ho mai conosciuto personalmente e a cui non mi legava nessun legame affettivo particolare. Ma per me “non sono mai morte”. Nel senso che se adesso spuntassero in qualche trasmissione televisiva nella veste di ospiti o opinionisti non mi sorprenderei più di tanto. In questa mia personalissima categoria rientrano tre persone: Mike Bongiorno, Francesco Cossiga e Luciano Pavarotti. Temo e credo avverrà una cosa analoga con Giulio Andreotti.

Già, ma cosa ci resta di Andreotti? Non di certo “l’andreottismo”, come ha appena affermato un tale che sostiene di essere un giudice della procura di Aosta.

Ma ci restano molte cose. Di carattere personale e politico.

Personale. Come quando mio padre mi accompagnava alle elementari e, da un angolo di via dell’Orso, spuntava sempre il Divo Giulio con tanto di uomo di scorta a seguito.

Un personaggio che in quel periodo, trattasi della seconda metà degli anni ’90, collegavamo subito con la politica ma senza porci troppo il problema del suo ruolo e del motivo della sua importanza.

Quell’uomo era “la politica” anche se, sentendo continuamente parlare di Berlusconi, Prodi, D’Alema, Clinton e Boris Eltsin non riuscivamo a capire i loro nessi e il loro legame con questa quintessenza della politica italiana.

Mia nonna diceva “quello è stato tutto”. Timidamente facevo notare: “anche Presidente della Repubblica?”. “No”, rispondeva, “tutto. Tranne Presidente della Repubblica”.

Il personaggio di per se appariva simpatico. Del resto se era qualcosa che aveva un legame con la tradizione non poteva apparirti del tutto ostile.

I primi dilemmi sulla collocazione e sul ruolo politico di Andreotti sorsero nel 2001 quando si facevano abbuffate di messaggi autogestiti in vista delle elezioni politiche. E fu un lieve trauma assistere agli spot di Democrazia Europea. Andreotti-D’Antoni e Zecchino. Fuori dai poli. Contro tutti.

La più diretta e specifica presa di posizione di Andreotti nel corso della Seconda Repubblica. Un tentativo infelice di far emergere una terza forza politica centrale in grado di incunearsi tra i colossi del bipolarismo tradizionale.

Molto cose seguirono: misteriose dirette dal Senato in cui parlava a nome del gruppo “Per le Autonomie”. O la sua partecipazione all’epica trasmissione, condotta da Milly Carlucci, “Una giornata particolare” in cui per qualche ora della mattina fece il commesso di una libreria del centro.

Tra libri da illustrare consigliati ad un bambino e consigli ad un riottoso motociclista poco propenso a solidarizzare con la nuova attività professionale del Senatore a vita.

Nei fasti della tv generalista, indimenticabile il ruolo di giurato del Senatore nel reality show “Ritorno al Presente” condotto da Carlo Conti. Uno show dagli scarsi ascolti che fu costretto a chiudere anticipatamente assegnando la vittoria improvvisa e finale ad un’incredula Gegia. In quella sede il Divo Giulio condivideva lo scranno da giurato non con gli ex Presidenti della Repubblica, ma col gran commis di casa berlusconiana Alfonso Signorini.

Poi le elezioni del 2006. Il voto dato alla Camera per Alleanza Nazionale (un sostegno a Giulia Bongiorno) e al Senato per la lista Democrazia Cristiana per le Autonomie-Nuovo Psi, con capolista Pippo Franco.

La battaglia per la presidenza del Senato che lo vede scontrarsi con Franco Marini. Proposto dal centrodestra, Andreotti non accetta ne rifiuta. Ma corre. Verrà battuto solo dopo una ripetizione del voto e numerosi voti assegnati ad un fantomatico “Francesco Marini” o al futuro sindaco di Viterbo Giulio Marini (la sintesi è prerogativa della politica).

Un ruolo importante quello dei senatori a vita nel corso della XV legislatura. Legislatura che si chiude con le elezioni anticipate nel 2008. In un folle election day Andreotti annuncia il suo voto, in fase di ballottaggio, per Francesco Rutelli sindaco di Roma e Alfredo Antoniozzi presidente della provincia. Perderanno entrambi.

Andreotti si prende la rivincita di presiedere la prima seduta del Senato nella XVI legislatura. Una rivalsa dopo la vittoria mariniana di due anni prima.

E poi “Il Divo” di Paolo Sorrentino. E allora “Cosa dicono i bookmakers clandestini?”, “Lasci stare De Gasperi!”, “Se c’è la candidatura dell’amico Arnaldo, la mia non esiste”, “Non sono alto di statura, ma non vedo giganti intorno a me”, “La situazione era abbastanza differente”, “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia” e quello storiella su Nenni, i manicomi e i tizi che aspirano a risanare il bilancio delle poste. Per non parlare di “Francesco, posso confidarti un segreto? Ero innamorato della sorella di Vittorio Gasmann, la sognavo tutte le notti” per poi concludere con la misteriosa scena scomparsa del film, tagliata e di cui Sorrentino ha sempre negato l’esistenza, in cui amaramente dichiara “Del resto, noi della Dc, di Adone ne avevamo solo uno…”.

Perché la morale è sempre quella. Occorre lavorare. Lavorare per “far eleggere Andreotti capo dello stato, così possiamo dirottare De Mita alla segreteria del partito e poi puntare tutto su Martinazzoli vicepremier”.

Una domenica pomeriggio si “blocca” su Canale5, ospite di Paola Perego. “Tutte queste belle donne, mi ero emozionato”.

Nel 2009 il suo 90° compleanno. Schifani va a salutare l’autorevole membro della sua assemblea. L’uomo delle istituzioni non può non alzarsi nonostante gli acciacchi, nonostante l’età. Riflessi condizionati.

Poi il lento addio. Definitivo ben prima di questo 6 maggio. Quando non partecipò all’elezione del Presidente della Repubblica. Una sconfitta politica legittimata solo dall’imminenza dell’addio.

Ma cosa resta di Giulio Andreotti?

Ok, i misteri di stato, i processi…ma la Dc? Ma la politica?

Molto spesso si è parlato di Andreotti come dell’uomo del misteri, dei segreti di stato, della strategia della tensione.

Ma se fosse stato lui, e non la sinistra Dc, la normalità? Se fossero stati gli altri l’anomalia del sistema?

Con un sistema politico bloccato, per la presenza di un Pci in grado intercettare il potenziale elettorale che in Europa votava socialista ma al tempo stesso impossibilitato ad andare al governo per motivi di carattere internazionale, la situazione politica italiana ha vissuto nell’anomalia totale.

Da qui la contraddizione di un sinistra democristiana da sempre molto forte che, una volta finita la Dc, non ha esitato schierarsi (dopo gli ammaliamenti nei confronti di Segni) col polo di centrosinistra.

Non esistendo un Partito di natura socialdemocratica in grado di instaurare una forma di alternanza di governo con la Dc, un elettorato potenzialmente di “sinistra” molto spesso tendeva a rifiutare una scelta radicale come quella di votare o iscriversi a Pci o una scelta settaria come quella del Psi. Considerando l’alto tasso di cattolicesimo nel nostro paese, questa parte politica ingrossava le file della Dc all’insegna di presunti segnali di discontinuità e della dottrina sociale della Chiesa.

Anomalie che spingono legittimamente politici come Franceschini a schierarsi, sin dai tempi dei cristiano-sociali nel 1994, senza se e senza ma a sinistra. Creando una dialettica politica anomala considerando l’occupazione del polo di destra da parte dei partito cristiano-democratici europei.

Moro, Zaccagnini e Donat-Cattin volenti o nolenti, e non per responsabilità proprie, hanno ingrossato le file di uno scenario di totale anomalia che anziché vedere la Dc come uno dei due poli del sistema lo ha visto come perno centrale e gravitazionale del sistema politico nostrano.

Da qui una destra, un centro duro e puro e una sinistra. In grado di deflagrare alla fine del regime dei partiti.

Per certi versi Andreotti, con quella sua ostilità nei confronti di Moro e per quegli ami lanciati a personale politico dell’ex Msi ci mostra, seppur nella moderazione, la possibilità e il sogno di una Dc in grado di essere il soggetto del centrodestra del sistema politico. Una machiavellica reazione al compromesso storico che, rigettando l’idea secondo cui bisogna unificare le cultura politiche predominanti del paese, occorre invece elaborare qualcosa di nuovo e magari più simile ai nostri omologhi europei.

Un “idem sentire” che lo univa a Francesco Cossiga. Il primo a capire che l’Italia con la fine della Guerra Fredda si stava avvicinando a cambiamenti epocali non troppo dissimili da quelli avvenuti nei paesi della Cortina di Ferro.

Perché dirigismo in economia e sistema politico bloccato furono caratteristiche del blocco sovietico, ma anche dell’Italia. La Francia ebbe modo di liberarsi da questo crinale grazie al tendenziale bipolarismo delineatosi con l’elezione diretta del Capo dello Stato e con il sostanziale fallimento del gollismo duro e puro, desideroso di unire le componenti nazionali e quelle di sinistra in funzione anti-giscardiana

Cossiga l’aveva capito, paradossalmente sul fronte sinistro e “liberaldemocratico” dellla Dc. Tanto da proporsi come Presidente del Pds, dopo il suo settennato, per traghettare gli ex comunisti anomali nel sicuro porto della socialdemocrazia europea (e dell’unità socialista di craxiana memoria?).

E dunque Giuseppe Pella, un liberista cristiano “senza cuore”. Cossiga un picconatore poco “imparziale e Andreotti “un uomo di potere dal passato oscuro”.

Ma se fossero state loro le vittime del sistema anomalo? Se la risoluzione dell’”enigma italiano” fosse stato il loro protagonismo in un campo da gioco del tutto diverso?

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