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Perché il sindaco Johnson sposa la causa del NO all’Europa

Dietro la scelta del primo cittadino londinese c'è una scelta culturale. Ma anche una feroce lotta di potere.

Di Livio Ricciardelli
Pubblicato il 22 Feb. 2016 alle 16:04

Diciamoci la verità: Boris Johnson è il vero erede di Georges Clemenceau.

L’abilità con cui il sindaco di Londra tiene a bada i più grandi amori della sua vita (il giornalismo e la politica, col primo nella parte della moglie e la seconda nella parte dell’amante) ricorda quella dell’ex primo ministro francese durante la prima guerra mondiale, coi suoi articoli quasi quotidiani sul giornale “L’Aurore”.

Ed è stato proprio attraverso la sua rubrica del lunedì sul quotidiano “Telegraph” che Johnson ha annunciato la sconcertante ma a tratti prevedibile notizia: il suo impegno accanto al fronte del “Sì” alla Brexit.

Una battaglia che altrimenti sarebbe stata relegata allo scarso carisma del ministro della giustizia Michael Gove o dell’usato sicuro (e sicuro euroscettico) Iain Duncan Smith, trova nel primo cittadino della capitale britannica il proprio frontman. Capace di apparire come il vero e proprio contraltare a David Cameron ed al faticoso accordo raggiunto dal primo ministro nel consiglio europeo della scorsa settimana.

Nel corso degli anni Boris Johnson si è sempre contraddistinto per essere un conservatore tendenzialmente più a destra della media del suo partito. Aspetti che molto spesso lo hanno portato a solidarizzare con istanze conservatrici ben diverse rispetto a quelle dei tories britannici, come ben testimoniò la sua intervista a Silvio Berlusconi in quel di Rimini nel 2003 (sì, quella in cui sosteneva che il confino d’epoca fascista equivalesse ad una sorta di viaggio premio in quel di Ventotene).

David Cameron invece con la sua idea di “big society” (dove non arriva lo stato può arrivare la società…che dunque esiste…) rappresentava delle istanze conservatrici più centriste ed in grado di accantonare alcuni residui dei thatcherismo tradizionale. In questo senso un maggior riavvicinamento all’Europa era doveroso, essendo proprio il partito dei Tories (almeno fino al 1979) il perno dell’europeismo in terra d’Albione (se escludiamo il noto europeismo della componente liberaldemocratica).

Ma c’è anche un tema biografico in questa rivalità Johnson-Cameron: entrambi cresciuti nei migliori college e nelle migliori università del Regno, entrambi visti come il futuro del Partito Conservatore, David Cameron sorprendentemente bruciò le tappe rispetto al suo amico-rivale Johnson. Assumendo la leadership del partito a dispetto dei pronostici di gioventù.

A seguito del primo governo di coalizione dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, il sindaco di Londra cogliendo incertezza nei sondaggi e l’ipotesi di riproporre al paese un governo di coalizione se non di vera e propria unità nazionale, con uno strappo alla prassi si candidò in Parlamento alle elezioni generali del 2015. Il suo obiettivo? Sapendo bene che i conservatori sarebbero arrivati primi alle elezioni, ma probabilmente senza disporre di nessun tipo di maggioranza assoluta, Johnson sperava nel logoramento di Cameron. E nella possibilità di assumere lui, scartato il suo rivale, la guida di un governo multicolore.

Le previsioni vengono talmente stravolte che non soltanto i Conservatori tornano saldamente alla guida del paese, ma addirittura possono governare senza l’avallo del Partito Liberaldemocratico di Clegg. Una vittoria totale ed inaspettata, frutto di un lavoro di squadra del governo conservatore capace di produrre negli anni terribili travagli interni (basti chiedere a William Hague, a Liam Fox ed al capo ufficio stampa di Palazzo Chigi). Un lavoro di gestione del collettivo che spinge Cameron a premiare i suoi colonnelli: Theresa May, Philipp Hammond e George Osborne conserveranno anche nel nuovo esecutivo il propri ruolo rispettivamente di ministro degli interni, degli esteri e di Cancelliere dello Scacchiere.

Quest’ultimo sopratutto (dopo inizi traballanti che avevano spinto gran parte della stampa specializzata a definirlo “un pessimo ministro dell’economia ed un pessimo padre”) ora viene visto come potenziale successore di David Cameron alla guida del Partito Conservatore. Un partito che rischia di sfidare alle prossime elezioni generali Jeremy Corbyn, considerato da molti come quanto mai battibile.

In questo quadro politico si colloca la scelta di Boris Johsnon di schierarsi contro il suo primo ministro in questa battaglia per l’Europa. Una scelta figlia di una cultura politica che ha visto negli ultimi decenni i conservatori posizionarsi sul versante anti-Europa nel dibattito politico interno. Ma anche figlia di un posizionamento interno finalizzato a colpire Cameron e la sua squadra di governo.

E per portarsi a casa finalmente lo scettro del comando e la guida del paese.

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