Quando ho scoperto di avere vinto una borsa di studio e di poter trascorrere un anno in Brasile, il mio cuore scoppiava di felicità. Quando l’hanno scoperto i miei amici, a scoppiare erano solo fragorose risate.
Invece, il tempo mi ha dato ragione. Studiare a Rio è più impegnativo del previsto, non tanto per il carico di lavoro o per la lingua portoghese. Vi spiego il perché.
Le lezioni iniziano tutti i giorni alle sette e mezza del mattino. I primi giorni arrivavo puntuale, ma in classe c’eravamo solo io, il professore e il solito sfigato che prende l’autobus ai confini del regno e arriva quando il gallo canta. Con la scusa del tanto-lo-fanno-tutti, anche io ho iniziato ad accumulare una marea di ritardi ingiustificati. Prima delle otto meno dieci, infatti, la lezione non comincia.
Tra studenti che disturbano entrando a metà della prima ora o che saltano la lezione, mi sembra di essere tornata al liceo. Mantenere alta la concentrazione durante le lezioni è molto difficile. I miei colleghi entrano ed escono dall’aula come i clienti in un centro commerciale, alcuni scartano rumorosamente merende e le sgranocchiano fastidiosamente, altri si tolgono le scarpe e rimangono a piedi nudi come i bambini al cinema.
Trovare un posto in biblioteca è impossibile, non ce ne sono. Non parlo di posti, ma di biblioteche ben fornite o spazi comuni dove lavorare in gruppo. Chi vuole studiare deve accontentarsi di una fila di banchi sistemati contro i muri dei corridoi, che fa tanto chi-mi-passa-la-versione alla maturità al quinto superiore.
Di rappresentanti degli studenti neanche l’ombra. L’unica volta che li ho visti spuntare mi hanno chiesto di firmare una petizione, poi ho scoperto che in realtà ero in lista per la festa delle matricole. A quel punto che fai, non vai? Si sa che i primi tempi sono difficili per tutti e si esce di casa in cerca di amici. Te ne penti appena ti ritrovi con un bicchiere di caipirinha sciacquata in mano tra freshmen che ancora puzzano di latte e giuri sul Cristo Redentore di non farlo mai più. True story.
All’università la connessione internet funziona male, il segnale è debole e vengono rubati periodicamente i router. Ordinaria microcriminalità accademica che forse resterà impunita. E dire che io quando ho riconsegnato i libri in ritardo alla biblioteca universitaria di Bologna sono stata radiata dal servizio prestiti per tre mesi.
E poi all’università nessuno sa mai niente. Aule, orari, scioperi, è tutto un grande mistero. Ma questo è un problema cronico del Brasile. Se chiedi informazioni confondono la destra con la sinistra, il sopra e il sotto, lo ieri col domani, oppure ti fissano con gli occhi imbambolati come se gli avessi appena detto “Ora spogliati”.
D’accordo. Confesso che il piano non era andare a Rio e studiare come se non ci fosse un domani. In realtà la situazione non è poi così tragica: i professori sono preparati, l’ambiente è disteso e la competizione non è eccessiva. I miei colleghi universitari hanno ventun anni e almeno due stage all’attivo nel curriculum, probabilmente stanno facendo il terzo, retribuito. Studiano, lavorano, i più grandi affiancano i docenti nella correzione dei compiti o ricoprono il ruolo di tutor universitario.
Quel che è realmente diverso dall’Italia è l’approccio più informale dei professori. Qui i docenti incoraggiano lo studio critico e la partecipazione attiva degli studenti. Li coinvolgono in progetti di ricerca e nella stesura di working paper. Sanno che l’istruzione in Brasile ancora non è eccellente, ancora non è per tutti. Non è un caso che in un paese grande come questo nessuno sia mai stato insignito del premio Nobel. A onor del vero, ci sarebbe solo il biologo Peter Medawar che, nonostante fosse nato in Brasile, ha poi condotto vita e studi nel Regno Unito.
Un premio Nobel non è solo sinonimo dell’intelligenza di chi lo riceve, ma è anche un buon indicatore delle opportunità che un Paese offre ai suoi ricercatori. Opportunità di ricevere un’istruzione di qualità, opportunità di fare ricerca, pari opportunità tra uomini e donne, tra bianchi e neri. Opportunità che il Brasile sta tentando poco a poco di creare, come il sistema delle quote razziali, introdotto per garantire la presenza di afrodiscendenti nelle università brasiliane.
Quindi sì, in fin dei conti, studiare a Rio è più impegnativo del previsto.