Checché ne dica Giorgia Meloni, nel corso della sua ultima apparizione a “In Mezz’Ora”, in India non vige un sistema di tipo presidenziale. Di conseguenza non ci sarà alcuna elezione diretta del Presidente della Repubblica. Nonostante questo smacco, nelle prossime settimane inizierà il complesso iter per le elezioni legislative del paese. Verrà eletta il Parlamento con più membri del mondo e, assieme alle elezioni europee, si tratta del voto politico che coinvolge il maggior numero di cittadini a livello planetario (curioso che avvenga lo stesso anno del voto europeo). Proprio per questo si tratta di un voto che dura molte settimane e il risultato si saprà dopo mesi. Servirà un tempo necessario analogo a quello che serve per sapere chi ha vinto le elezioni presidenziali in Afghanistan. E questo dice tutto.
Le elezioni sono suddivise a livello dei singoli stati e dunque appare difficile fare un pronostico. La vulgata comune prevede però la fine del lungo regno del Partito del Congresso di Manmohan Singh.
Il Partito del Congresso Indiano per certi versi si può definire, parafrasando il vecchio Rassemblement du Peuple Francais, un partito “che intende essere la nazione”: assieme a molte altre forze politiche (l’African National Congress del Sudafrica, il Chp turco fino al 2003, il Partito Rivoluzionario Istituzionale del Messico dal 1929 al 2000 e i LibDem nipponici dal ’55 al 2009, escludendo qualche mese del 1993) il Congresso ha rappresentato il sistema politico nazionale governando per lunghi anni ininterrottamente il paese. Del resto il partito che fu di Gandhi e Nehru rappresentava al meglio quel mix etnico-linguistico e sociale esemplificato dal controverso sistema giuridico dell’“anglo-hindu-law”. Una forza politica in grado di rappresentare, parafrasando Bill Emmott, “la democrazia come vera e propria ideologia nazionale indiana”.
In queste elezioni il rischio di una vittoria del Bjp, partito nazionalista indù e perno di quel sistema a bipartitismo imperfetto che è quello di New Delhi, è molto forte. E ciò non comporta solo un revisione dei rapporti dell’India col mondo esterno (in primis con gli Usa e il Pakistan) ma anche nei confronti di alcune issues che da anni si trascinano dietro: in primis quella dei Marò italiani.
Nei giorni scorsi il ministero degli affari esteri italiano ha dato via ad una fase 2 del procedimento Italia-India, chiedendo un’internazionalizzazione della crisi e dando il ben servito all’inviato del governo italiano De Mistura (“non è più il tempo di inviati, ma di un team di giuristi”).
La mossa presumibilmente trae spunto proprio dalla possibile vittoria dei nazionalisti indù alle prossime elezioni: un movimento politico più oltranzista potrebbe rendere ancora più ardua la battaglia legale e giuridica per riavere indietro i fucilieri di Marina. E questo oltranzismo per paradosso potrebbe ulteriormente rendere la vicenda dei Marò come una vicenda non solo nostrana, ma di tutta la comunità internazionale.
Meglio dunque prepararsi chiedendo sin da subito che la partita sia internazionalizzata. Per essere ancor più forti, in sede Onu, quando a New Delhi siederà un governo che farà del nazionalismo e dell’autarchia il proprio tratto distintivo.
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