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Paese di Fango

Un noir intenso, in cui nulla è quello che sembra

Di Maria Dolores Cabras
Pubblicato il 25 Mag. 2014 alle 15:03

Un paese senza colori, tre misteriosi personaggi, un delitto. Un viaggio caleidoscopico durante il quale, pennellata dopo pennellata, si definisce il profilo dei protagonisti, le cui storie si intrecciano indissolubilmente in un unico enigmatico disegno.

Questa la storia di “Paese di Fango”, romanzo della nostra Dolores Cabras, di cui pubblichiamo un estratto.

 

“Chiudi gli occhi. Pensa una parola, intensamente. Chiediti qual è il suo significato. Ora smetti di pensare. Lo senti? Sì, intendo il senso della parola. Lo senti? Forse ti sibila qualcosa nelle orecchie, o ti scivola come l’acqua sulla pelle o ancora ti accende lo sguardo con un baleno di stelle. – Cosa senti, bambina mia? – Azzurro. – Cosa? – Sento l’azzurro. Sono al riparo da tutti i guai. In letargo. D’inverno, mentre fuori la neve imbianca le cime degli alberi. Poi sento pace e sonno. Un piacevolissimo torpore. Una voce che ribatte a un’altra voce ma non fa rumore. Una stretta di mano che mi tiene legata. Oh, non si allenta mai. Tutto qui è silenzio. Sai?! È calore sulla fronte, è ghiaccio che brucia, come un bacio schioccato da chi mi vuol bene. Come un tuo bacio, mamma. – La parola che hai pensato è “casa”? – No. La parola che ho sentito è “babbo”. Rossana Ruda non le ricordava più tutte le parole che aveva imparato a conoscere con la sua mamma. Erano tante. Troppe. Erano tutto il suo vocabolario. Ogni singolo nome di ogni singola cosa lei lo aveva pensato, sentito e descritto, in fasi diverse della sua vita. Tutte le volte sperava di riuscire a descrivere le sue sensazioni in modo così preciso da incoraggiare la madre a indovinare le parole senza alcuna remora. Il più delle volte falliva. Falliva lei e falliva la madre, perché entrambe vedevano il mondo con occhi diversi. Lei era miope, una condizione che le aveva influenzato inesorabilmente la percezione delle cose: a grandi distanze non c’era luce per lei, tutto era come inghiottito dal nulla ed era indistinto. Il più remoto confine non lo concepiva se non a breve distanza, l’infinito lo riscopriva in uno spazio finito. Volteggiava come un’equilibrista sul filo dell’indeterminatezza traversando il vuoto in cui superficie e fondo, pelle e carne, facciata e sostanza, si corrispondono in un’unica identità. Era una questione di prospettiva. Quando provò a bussare alla porticina del campanile per parlare con il sacerdote e lo sentì piangere dall’altra parte, Rossana Ruda strizzò le palpebre tanto forte che gli zigomi le si sollevarono e la fronte le si corrugò tutta. Pensò. Intensamente. Le bastò poco tempo per iniziare a sentire. Con un fioccare insistente di bioccoli di lana del colore della terra, tutto intorno a lei si tinse subito di un marrone macchiato di grigio. L’amaro delle mandorle le aveva spento l’umore in gola, mentre il respiro si gonfiava rapido, opprimendo il torace fino a soffocarla. Il lamento dei tuoni esplodeva dentro le sue orecchie e la violenza del fulmine ribaltava il suo corpo convulso, bruciandole la pelle da viva, lentamente. Fiutò un odore cattivo e una colonna di fumo si levò alta dai capelli, ora trasformati in una nube densa. Iniziò a singhiozzare senza lacrime, come se a gemere fossero il sangue nelle vene e le viscere ritorte dentro il ventre. Fu allora che comprese finalmente il senso di tutto e sgranò gli occhi. – Il dolore – disse tra sé, alla maniera con cui l’avrebbe comunicato alla madre – questo è il dolore. Dall’altra parte della porta, don Nerino stava disteso sul pavimento con le braccia aperte al cielo e le due gambe unite, distese come a pungere la terra. Era un uomo crocifisso, seppure senza il legno, i lacci e i chiodi. Era un uomo crocifisso anche se non aveva la pelle stracciata ed era sprovvisto di una croce apparente. A momenti, gli sembrava di potersi rimettere in piedi per riprendersi la vita, allora sollevava il busto e stava seduto per pochi secondi. Si batteva le caviglie l’una contro l’altra per alleviare il formicolio che lo indolenziva dopo esser stato troppo tempo fermo nella stessa posizione. Poi, scorgeva la tela poggiata sul muro del terrazzino, messa lì proprio da lui perché non potesse dimenticarla, mai, e ripiombava nel lutto. – Che i corvi vengano a graffiarmi il petto, le formiche mi strozzino e la pioggia mi si riversi sopra scrosciando a cascata dalle nuvole per affogarmi. Il sacerdote si distendeva di nuovo a terra per lasciarsi morire, pregando Dio di prendergli l’anima.”

 

L’autrice

Dolores Cabras è un’appassionata studiosa della Cina. Si è formata presso la redazione italiana del New York Review of books-La Rivista dei Libri e su The Post Internazionale, dove da settembre 2011 scrive di politica interna ed estera cinese. Nel febbraio 2013 è uscito il suo primo libro ‘Il Ritorno dell’Impero di Mezzo’ edito da Fuoco Edizioni. Attualmente si occupa di organizzare e curare eventi d’arte focalizzati sulla promozione della millenaria cultura cinese nel nostro Paese.

 

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