Mentre sui siti italiani l’unica notizia relativa alla nuova serie di Netflix “Orange Is the New Black” è quella che riguarda la scena iniziale della doccia lesbo delle due protagoniste Piper Chatman (Taylor Schilling) e Alex Vause (Laura Prepon, as seen in That 70s Show), il dibattito sulla serie qui negli Stati Uniti è piuttosto interessante e per nulla incentrato sulle occasionali effusioni saffiche tra personaggi.
“Orange Is the New Black” ha debuttato sulla piattaforma Netflix lo scorso weekend: 13 episodi di un’ora ciascuno che raccontano i quindici mesi in carcere di Piper Chatman (nella vita reale, Piper Kerman, autrice del libro che ha ispirato la serie), una trentenne laureata, bianca e abbiente, che si costituisce per un crimine commesso dieci anni prima.
All’epoca Piper, una ingenua e scialba giovane del Connecticut sbarcata a New York, si era lasciata coinvolgere dalla sua ragazza Alex a trafficare droga in cambio di viaggi per il mondo e di avventure piccanti alla Thelma e Louise.
Al momento dell’ingresso in carcere però, quello stile di vita era solo un lontano ricordo. Conosciamo infatti una Piper Chatman che si è perfettamente ambientata nella realtà newyorkese più comoda e “per bene” – da brava yuppie, Piper programma il matrimonio con il suo ragazzo Larry (Jason Biggs, quello di American Pie, ancora una volta nella parte dell’uomo sessualmente frustrato) e progetta il debutto della sua linea di saponi artigianali nel negozio di lusso Barneys (ogni riferimento alla ex detenuta Martha Stewart è puramente casuale).
La vicenda umana della protagonista è interessante, ma non è certamente il cardine della serie. Semmai è uno spunto per fornire allo spettatore uno spaccato di una realtà altrimenti inaccessibile, quella del penitenziario femminile di minima sicurezza dove Chatman sconta la sua pena.
Il carcere di OITNB è una credibile rappresentazione di come funzionino le prigioni d’America nella vita reale, almeno per quella maggioranza di pubblico che in prigione non ci ha mai messo piede.
È un luogo in cui la popolazione è prevalentemente nera e ispanica (le nere d’America hanno un tasso di incarcerazione tre volte superiore a quello delle bianche, le ispaniche sessantanove volte), con la presenza di alcune minoranze immigrate, come quella rappresentata dalla russa “Red”, amministratrice della cucina, detenuta per attività mafiosa che nella prigione è boss del contrabbando di oggetti dal mondo esterno, che arrivano nascosti tra le scatole di provviste di cibo da lei gestite.
Il carcere ha un suo sistema economico dove la moneta corrente sono i prodotti accumulati giorno per giorno dalle detenute, barattati in cambio di favori o altri oggetti, e ha una sua struttura sociale ben definita con personaggi prominenti e ruoli da rispettare (nel primo episodio Chatman insulta davanti a Red il cibo della mensa, ignara del suo ruolo di cuoca, e come risultato viene messa a digiuno dalle detenute del clan finchè non trova il modo di riscattarsi dopo il passo falso).
C’è anche un pizzico di quelle dinamiche più tipiche delle high school, presumibilmente romanzate. Ci sono i gruppetti e c’è il bullismo tra detenute, c’è il cameratismo, ci sono amicizie e più in là nella serie anche storie d’amore. Ma a bilanciare il tutto ci sono anche la corruzione delle guardie carcerarie e la costante minaccia della violenza sessuale, sia lesbica che etero.
Attraverso lo smarrimento di Chatman, che in questo tipo di fauna si trasforma gradualmente da pesce fuor d’acqua a membro della comunità, lo spettatore impara a conoscere il penitenziario e il suo sistema sociale, che sono i veri protagonisti di OITNB.
La serie ha il grande merito di porre lo spettatore di fronte a mondi sociali impenetrabili per chi ne è al di fuori, e di esasperare le diversità sociali americane in un modo che definirei “normalizzante”. Gli autori hanno attentamente selezionato tutti i taboo che la società a stelle e strisce fatica ad elaborare, li hanno assegnati ai personaggi della serie con le loro backstories e il loro presente, e li hanno confinati in uno spazio chiuso e segregato, costringendoli ad interagire. Il risultato ha il potere di inchiodare gli spettatori allo schermo.
A interagire sono i pregiudizi razziali, le differenze di ceto sociale, l’abuso di droga, la religiosità, il bigottismo, l’omosessualità e addirittura la transessualità – come nella storia di Sophia (Laverne Cox), una detenuta che fuori dal carcere era Michael, un pompiere sposato e con un figlio, che decide di diventare una donna.
In OITNB traspaiono anche le problematicità del rapporto tra detenuti e poliziotti, la corruzione del sistema, i disservizi e gli abusi, la mancanza di garanzie e di rispetto dei diritti umani, la ferocia che la condizione di detenzione tira fuori sia dalle carcerate, sia di chi è chiamato a rappresentare la giustizia nel contesto del carcere e non sempre svolge questo compito propriamente.
Le interazioni a cui alludo però non vengono osservate da una prospettiva esclusivamente “bianca”: OITNB prova a mettere in scena le differenze tra detenute e le loro storie in modo da permettere a tutte le differenti componenti coinvolte di identificarsi o sentirsi rappresentate, senza condiscendenza. Sotto questo aspetto la serie di Jenji Konhan (la creatrice di Weeds) e’ un discreto successo, anche se per il momento non ho ancora letto nessuna recensione da parte di giornalisti afroamericani o ispanici, cosa che aspetto di fare con ansia.
I commentatori americani che per ora si sono espressi, certamente in maggioranza bianchi e abbienti come Piper Chatman, sono estremamente entusiasti della serie. Su Slate, la commentatrice June Thomas non riesce a spiegarsi perche’ il personaggio di Piper sia cosi’ “relatable” e non puo’ fare a meno di chiamarla one of “us”, dove noi, us, e’ virgolettato perche’ non si tratta esattamente di “noi bianchi”, ma di noi persone che non metterebbero in conto di finire un giorno in prigione.
Su Jezebel, la blogger Laura Beck mette in relazione la scena in cui la detenuta afroamericana Taystee studia quale pettinatura sia la più appropriata per presentarsi di fronte alla commissione (bianchissima) che riesamina il suo caso con il trattamento che Rachel Jeantel, la migliore amica di Trayvon Martin, ha ricevuto in aula e sulla stampa nei giorni successivi alla sua deposizione sul caso.
La sentenza che ha dichiarato Zimmerman innocente e’ notizia fresca, e in varie città d’America si sono organizzati cortei di protesta. In un momento in cui la questione afroamericana e’ in qualche modo nuovamente dibattuta come tale, specialmente dopo l’invito di Obama a rispettare la deliberazione dei giudici, certamente OITNB offre degli spunti di discussione interessanti.
Che poi e’ tutto quello che la buona televisione dovrebbe fornire, in fin dei conti.