Il dato elettorale turco del 7 giugno 2015, considerando gli ultimi tredici anni di politica nel Paese, rappresenta un evento decisamente epocale.
L’Akp del presidente Recep Tayyip Erdoğan e del primo ministro Davutoglu ottiene il 40.8 per cento dei voti, distanziandosi di molto dalla sua ormai abituale maggioranza assoluta. Il Chp degli eredi della “rivoluzione” kemalista oscillano nella forchetta che ormai gli è propria: un bel 25 per cento tipico di un partito identitario. Il Partito Nazionalista si attesta sul 16 per cento, mentre l’ormai ex movimento territoriale e autonomista curdo si presenta a livello nazionale e per la prima volta supera la soglia di sbarramento del 10 per cento.
Con ordine, cerchiamo di mettere in fila i principali dati:
Cambi di leadership
Ovvero: qualcosa è andato storto? Lungi dal dar vita ad arditi parallelismi, ma la situazione dell’Akp di Erdoğan non sembra distaccarsi molto da quella della Piattaforma Civica di Donald Tusk: quando elevi il tuo leader massimo a un livello politicamente superiore, molto spesso non è detto che i tuoi delfini siano in grado di portare avanti la baracca. I civici polacchi hanno pagato la “promozione” di Tusk a presidente del consiglio europeo perdendo, dopo cinque anni, la presidenza della Repubblica.
L’Akp, per quanto gran parte dell’opinione pubblica abbia dipinto Davutoglu come un grande innovatore per quanto concerne la politica nei confronti di tutto ciò che è più a est di Ankara, sembra non seguire le orme del suo illustre predecessore Erdoğan. Adesso il dilemma sarà capire se si formerà un governo di minoranza, se ci sarà la volontà politica per un’alleanza di governo col Mhp (ma gli avversari di “corrente” non sono peggio di quelli di stampo ideologico?) oppure se si tornerà alle elezioni anticipate. In questo caso, poniamo una questione di fantapolitica: e se l’Akp proponesse Abdullah Gul come proprio candidato per la premiership?
A errori fatali, rischi fatali
Uno dei dati di fondo di questi elezioni è l’affermazione del Hdp che supera il 10 per cento. Si tratta di un successo senz’altro storico. Ma animato da un equivoco (o forse dalla mancanza di volontà politica?).
Mai scordarsi infatti che a seguito della terza vittoria consecutiva di Erdoğan alle elezioni politiche del 2011, da parte di molti emissari dell’Akp ci fu il tentativo di stabilire un dialogo coi movimenti autonomisti curdi rappresentati al parlamento di Ankara.
Lo spirito che animava una siffatta iniziativa politica era facile da capire ed era esemplificata da una data: 2023. L’ossessione di Erdoğan, il centenario della fondazione della Repubblica Kemalista Turca. Bisognava assolutamente entro quella data, così diceva il premier, arrivare a una serie di riforme costituzionali tese a rendere la Turchia una repubblica semi-presidenziale.
In cambio il partito di maggioranza si impegnava a conferire forme di federalismo asimmetrico alle aree del Paese ad alta densità di cittadini curdi. Uno scambio in grado di arrivare a una maggioranza dei due terzi in parlamento, soglia qualificata per modificare la costituzione.
In questo modo però si è posta la questione curda come grande tema nazionale, favorendo la nascita di un movimento radicato su tutto il territorio del Paese. Tra l’altro le stesse riforme costituzionali sono state timide. E oggi il presidente della Repubblica per quanto eletto dal popolo non detiene il potere esecutivo sulla falsariga del suo omologo francese.
La corda si è spezzata
Se un partito dopo 13 anni non ottiene la maggioranza assoluta e stenta ad arrivare al 41 per cento i problemi non sono solo di leadership, ma strutturali. In questi anni il Paese (soprattutto nel corso delle ultime amministrative e presidenziali) si è dimostrato propenso a fidarsi di Erdoğan (le stesse opposizione alla Gulen, sono state prontamente battute).
Sono stati però commessi errori di valutazione: un grande dato che l’opinione pubblica ha sottovalutato è la ripartizione del voto referendario del 2011, quando si votarono riforme costituzionali tese a diminuire il peso dei militari (da sempre garanti della Repubblica Kemalista, così garanti da abusarne molto spesso).
Riforme di buon senso per gran parte dell’Europa, dove l’esercito non ha questa rilevanza, ma che per molti elettori turchi hanno assunto l’abbandono definitivo del Paese allo scacchiere atlantico e occidentale per quello più orientale e musulmano.
Il fatto che le aree più occidentali del Paese (a parte Smirne, da sempre caso a parte) avessero votato contro il ridimensionamento dell’esercito, non poteva essere bollato come una forma di laicismo residuale, ma come il timore che quella specificità turca, senz’altro da rivedere, rischiasse di trasformarsi in parte di quel mare magnum dei Paesi islamici incompatibili coi valori occidentali.
Ecco, forse il voto di oggi ci insegna proprio questo. Che la stabilità è importante e che certe incrostazioni del passato sono senz’altro da superare. Ma che al tempo stesso occorre preservare una peculiarità nazionale, che ha reso il modello turco unico al mondo. Se invece si guarda sempre più a oriente cadono muri e tabù. Ma soprattutto vengono meno quelle bussole identitarie che volenti o nolenti hanno animato gli ultimi cent’anni della storia di un Paese.