A Nairobi le parole di papa Francesco arrivano affievolite dalla
distanza, dal filtro dei mass media, dalla lingua. Ho invitato un
gruppo di giovani a leggere insieme il discorso del papa ad Assisi,
in inglese. Tre sono i passaggi che più hanno attirato la loro
attenzione. Quello che richiama alla responsabilità per tutti i
cristiani di partecipare, immergersi, nei drammi del nostro tempo.
“La
nostra strada è quella di immergerci nelle situazioni e dare il
primo posto a chi soffre; di assumere i conflitti e sanarli dal di
dentro; di percorrere con coerenza vie di bene, respingendo le
scorciatoie del male; di intraprendere pazientemente, con l’aiuto
di Dio e con la buona volontà, processi di pace”.
Poi
la richiesta creare una cultura dell’incontro.
“Pace
significa Educazione: una chiamata ad imparare ogni giorno la
difficile arte della comunione, ad acquisire la cultura
dell’incontro, purificando la coscienza da ogni tentazione di
violenza e di irrigidimento, contrarie al nome di Dio e alla dignità
dell’uomo”.
E
infine la constatazione che è necessario vivere insieme.
“l
nostro futuro è vivere insieme. Per questo siamo chiamati a
liberarci dai pesanti fardelli della diffidenza, dei fondamentalismi
e dell’odio. I credenti siano artigiani di pace nell’invocazione
a Dio e nell’azione per l’uomo!”
Non
tutte le reazioni sono positive. “Impossibile,
sono utopie”
dice Kioko, vent’anni, studente d’informatica. Invece Karen,
studentessa in procinto di terminare un diploma in sviluppo
comunitario, ha una domanda: “Ma
la chiesa ha sempre insegnato queste cose? Io frequento la mia
parrocchia e non me ne ero mai accorta!”.
Mi sento parte in causa, anche se non sono il suo parroco, e dico che
forse ne hanno parlato in modo generico, e il discorso per l’impegno
per la pace era implicito. Ma devo ammettere che la sua osservazione
non mi meraviglia, la dottrina sociale della chiesa non è un
argomento frequente dai pulpiti di Nairobi.
Superate
le obiezioni ci siamo guardati intorno per capire come vivere le
parole del papa, e quale potrebbe essere una nuova dimensione
dell’impegno cristiano in Africa. A parte le conclusioni riguardanti
l’impegno personale e di gruppo, sono emerse delle osservazioni che
fanno capire come i giovani di Nairobi siano attenti a quanto sta
succedendo in Africa.
Quasi
tutti convengono che in Kenya sta prendendo forza l’idea di superare
il tribalismo, o l’”etnicitismo negativo” come si deve dire per
essere “politically correct”, e di parlare in termini di unità
nazionale. Ma questo viene anche usato per demonizzare gli avversari,
come abbiamo visto con Jubilee, il partito dell’attuale presidente
Uhuru Kenyatta, che si sta consolidando al di fuori delle zone
tradizionali di influenza. C’è però il timore per una politica che
al di là della grandi parole sbandierate, sta diventando sempre più
uno spettacolo. La recente assemblea fondativa si è svolta sul
modello delle convention del partiti americani, con scenografie
accuratamente preparate e dirette televisive non-stop. E’ un modo di
far politica che non aiuta la partecipazione vera e il dibattito
sulle idee e i programmi. Nasconde, neanche troppo bene, una voglia di egemonia, di
totalitarismo, come quella che si è manifestata, in modi diversi
durante e dopo le recente elezioni in Gabon e in Zambia. Chi è il
potere non accetta di perdere, ed è pronto senza esitazione e
ricorrere alla violenza delle armi, come in Gabon, o al controllo dei
mass media, come è successo in Zambia. Anche in Zambia il partito al
potere ha vinto perché è riuscito a dipingere l’opposizione come
tribalista e potenzialmente pericolosa per l’unità dal paese. La
Somalia è un disastro incomprensibile. Peggio ancora il Sud Sudan,
dove i due principali leader, Salva Kiir e Riek Machar per
fidelizzare i propri sostenitori hanno fomentato il peggior
tribalismo immaginabile, più o meno apertamente approvando i
massacri fatti nel loro nome, creando di conseguenza una situazione
dove oggi sembra impossibile una riconciliazione interna, se non fra
qualche generazione. Forse solo la Tanzania sembra quietamente e
sicuramente muoversi in una direzione diversa, con una crescita di un
sentimento di unità che non appiattisce le differenze e le
particolarità delle diverse componenti etniche. E la corruzione?
Endemica ovunque, in Kenya in particolare ha raggiunto proporzioni
che nessuno sembra in grado di controllare. Le chiese, incapaci di
comunicare con i giovani urbanizzati, che fanno tanta fatica a
dialogare fra di loro e con l’Islam. Il quadro che i giovani vedono
intorno a loro non è incoraggiante. Kevin, venticinquenne giocatore
di calcio quasi professionista (un paio di centinaia di euro al mese
fra contanti e pasti) e anche grande lettore delle pagine di analisti
politica dei quotidiani nazionali, conclude la carrellata che è
durata oltre mezzora, con “Non
abbiamo ancora imparato a giocare il gioco della democrazia con le
regole che sono state inventate dagli altri. Non è il nostro gioco,
e anche gli allenatori e gli arbitri non sono dei nostri. Rimettiamo
noi giovani la palla al centro e riproviamo”.
In
questo contesto è possibile parlare di impegno cristiano, di cultura
dell’incontro, di vivere insieme di essere artigiani di pace? Non
solo è possibile, è doveroso, acconsentono tutti. Ma non è facile.
Cito
Bernhard Haring teologo morale che già nel 1995 diceva che da oltre
vent’anni (quaranta da oggi!) ci sono voci che auspicano l’avvento di
un’autentica comunità mondiale nella quale siano riconosciuti la
dignità di ciascuno e nella quale ogni nazione capisca di non poter
pensare al proprio bene senza interessarsi al benessere di tutti. Pur
con l’avvertimento che non appena pensiamo a strutture mondiali
efficaci indietreggiamo per paura “della bestia che sale
dall’Abisso” (Apocalisse 11,7) temendo l’instaurazione di una
tirannia universale. Haring sosteneva che il rimedio non sta nel
rifugiarsi negli individualismi e nazionalismi ma nell’attuare
progressivamente strutture che favoriscano partecipazione e
responsabilità. Poi cito un messaggio di Paolo VI, il quale nel 1971
diceva “Tutti
gli uomini nascono liberi a uguali nella dignità e nei diritti, essi
sono dotati di ragione e di conoscenza e devono comportarsi gli uni
verso gli altri come fratelli, Non torniamo indietro, diamo
applicazione logica e coraggiosa a questa formula: ogni uomo è mio
fratello”.
Solidarietà,
pace, fratellanza universale. Stava sognando Paolo Vi quando
pronunciava questo messaggio? O è questo l’orizzonte della storia
nonostante tutte le presenti difficoltà?
Karen
è persa nei suoi pensieri. Poi sbotta con una frase che diventa la
conclusione dell’incontro: “Vorrei
essere capace di contribuire a realizzare l’utopia di Paolo VI e di
papa Francesco. Il futuro dell’Africa non può essere lasciato in mani a
uomini – e
sottolinea con forza “uomini” –
come Salva Kiir e Riek Machar”.