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No risk no champagne

A Mosca con Limonov

Di Carlos D'Ercole
Pubblicato il 2 Apr. 2013 alle 17:10

Sono stato una sola volta a Mosca, nell’estate del 2001. Un caldo atroce che si portò via parecchi vecchi delle campagne moscovite.

Un traffico infernale, superato solo da quello di Istanbul, poliziotti che arrotondavano magri stipendi fermandoti nel cuore della notte, loschi italiani che si improvvisavano ristoratori in Novi Arbat, il lamento di donne immiserite e abbandonate nella centralissima Tverskaya, il trionfo di locali esclusivi destinati alla nuova elite economica.

La percezione di Mosca come un Far West in cui non era più possibile distinguere il lecito dall’illecito l’ho ritrovata nella biografia di Eduard Limonov scritta da Emmanuel Carrère.

Teppista in gioventù, idolo dell’underground sovietico, clochard nella New York degli anni Settanta, semi-divinità letteraria nella Parigi degli anni Ottanta, soldato al fianco delle Tigri di Arkan all’inizio degli anni Novanta, da un ventennio leader dei nazbol, gruppo che raduna estremisti di destra e nostalgici del regime comunista: quella di Limonov è una vita all’insegna del “no risk, no champagne”, come dicono i miei amici russi.

Il mondo che dipinge è hobbesiano, da “homo homini lupus”. Il forte vince sul debole. Il ricco schiaccia il povero. Non c’è spazio per i sentimenti, per la compassione.

Ma più che la violenza e il sesso, sono le riflessioni malinconiche quelle che lasciano il segno: “Erano belle le città malate, la New York degli anni Settanta, la Parigi dei primi anni Ottanta. La cosa più disgustosa è una città in piena salute, che trabocca grasso e merda”.

Diario di un fallito, Il Libro dell’Acqua: due manifesti che gridano il proprio odio contro il denaro che corrompe e inquina quel che resta della genuinità di un popolo: “Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore”.

In Limonov non c’è spazio per l’invenzione, i suoi libri sono la cronaca fedele di un’esistenza picaresca che nulla ha da invidiare a Charles Bukowski e Henry Miller: “Non scrivo più romanzi dal 1990. E forse non ne ho scritti mai. In America i miei libri uscivano con la dicitura fictional biography. Il romanzo inteso come una storia del tutto inventata non ha più senso. Roba dell’Ottocento. È come l’opera lirica, la danza classica, la pittura figurativa. I capolavori passati restano. Ma fare opere nuove è ridicolo. Meglio i saggi. I verbali. Le storie vere”.

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