So che il tema è controverso, e scivoloso. Perché troppo spesso l’ignoranza sulla Turchia e la sua storia spinge a considerarla un Paese musulmano come gli altri, in cui è vietato o fortemente limitato l’uso dell’alcol. Non è così: dalla birra Efes alle tante varietà di rakı – l’acquavite aromatizzata con anice che ne rappresenta uno dei simboli nazionali –, le bevande alcoliche sono tante e molto diffuse tra la popolazione. Né si può dire che esistano divieti formali legati al consumo privato di alcol.
Eppure, la battaglia per scoraggiarlo – o persino ostacolarlo – è da sempre al centro dello scontro ideologico tra l’anima religiosa e quella laica. Sin dal battesimo repubblicano di Mustafa Kemal Atatürk, il padre della patria che da subito aprì alla diffusione dell’alcol come segno di progresso e occidentalizzazione del Paese e che, cultore sfegatato del rakı, il novembre 1938 morì di cirrosi epatica.
Non è quindi una sorpresa assistere oggi, sul versante opposto, a un nuovo attacco. Isolate così, le ultime parole del premier Tayyip Erdoğan – da dieci anni in sella alla tigre anatolica – rilasciano tutto il loro sapore reazionario: «La nostra bevanda nazionale è l’ayran (a base di yogurt, acqua e sale, nda), e invece si promuove il consumo di alcol in ogni occasione», tuonava pochi giorni fa a Istanbul in una conferenza internazionale davanti a 1200 esperti di 53 Paesi ma pensando certo al suo elettorato interno conservatore e al pubblico islamico internazionale.
Giura che non si tratta di un «ostacolo» allo stile di vita laico, il primo ministro che ipotizza un ulteriore aumento della tassa speciale su alcol e tabacchi che sotto il suo governo ha raggiunto anche il 65 per cento. Per dire: sui 40 milioni di litri di rakı consumati ogni anno dai turchi, le imposte sono salite in un decennio da 10 a 77 lire. E poi: limiti alle pubblicità sui giornali che «fuorviano i nostri giovani», divieto di vendita in campus universitari e festival musicali per «proteggere la salute della popolazione». Non è solo una guerra di parole, insomma.
In molte zone del Paese, le norme stesse servono a poco. Basta lo stigma sociale a ridurre al minimo il consumo di alcol. Ma come ho già scritto su queste colonne, Istanbul non rappresenta tutta la Turchia. Nei quartieri centrali più occidentalizzati, è persino una sorta di zona franca che ha ben poco da invidiare alla vita notturna delle altre metropoli europee. Per questo, i segnali su Istanbul pesano di più.
Come, alla vigilia della stagione dei festival estivi, l’assalto del ministro della salute Mehmet Müezzinoğlu, che ha criticato apertamente gli eventi più liberal come “Sokakta hayat var” (“C’è vita in strada”): «Mentre nel mondo si cerca di ridurre il consumo di alcol, purtroppo alcuni leader locali offrono attrazioni alcoliche ai giovani organizzando questi festival». Il confine tra invito e divieto, si capisce, è piuttosto labile. E i timori non sempre così ingiustificati.
Nell’estate 2011, da un giorno all’altro fui sorpreso (e deluso) di non trovare più in strada i tavolini in cui passavo splendide serate a bere all’aperto. La municipalità di Beyoğlu – cuore della vita notturna – aveva deciso di vietarli, ufficialmente per abusi nello sfruttamento del suolo pubblico. Ma la mossa arrivò proprio all’inizio del mese di digiuno di Ramadan e, secondo alcuni testimoni, dietro la decisiva spinta di Erdoğan che pochi giorni prima, rimasto bloccato con la sua autoblu in mezzo ai tavoli sparsi nelle viuzze del quartiere, si era sentito provocato dal saluto (forse un po’ brillo) di alcuni avventori, che gli avevano dedicato il tipico brindisi turco: «Şerefe!».
Leggi l'articolo originale su TPI.it