Nauru rifugiati suicidio | “Più che un asilo è un esilio”. Sara Giorgi, psicologa di Medici senza frontiere (Msf), usa queste parole per spiegare agli studenti del liceo classico Tasso di Roma cosa stia accadendo sull’isola di Nauru, nel Pacifico, dove vengono confinati i rifugiati e i richiedenti asilo che provano ad andare in Australia.
Insieme ad Alessia Arcangeli, infermiera Msf che si è occupata del virus Ebola, la psicologa ha incontrato gli studenti il 5 dicembre, durante un evento nell’ambito della fiera “Più libri più liberi” organizzato nella Nuvola.
L’incontro si è svolto nell’Arena Robinson ed è stato condotto dal giornalista Angelo Melone.
Molti i temi toccati grazie alle domande degli studenti: dal rischio che gli abiti dei migranti trasmettano malattie (“Credeteci, non è così”, la risposta delle operatrici) alle difficoltà del rientro a una vita “normale” dopo mesi trascorsi a lavorare in zone dove sono in corso emergenze umanitarie.
A margine dell’incontro tra le operatrici e gli studenti, TPI.it ha intervistato Sara Giorgi, rientrata a luglio scorso da Nauru, che si trova a più di 3mila chilometri a nord-est dalle coste australiane.
Nauru rifugiati suicidio | Parla la psicologa Msf che assisteva i rifugiati
Lunedì 3 dicembre Medici senza frontiere ha pubblicato un rapporto sull’impatto sulla salute mentale di rifugiati e richiedenti asilo a Nauru a seguito delle politiche migratorie del governo.
Si tratta di persone provenienti dall’Iran o dall’est dell’Africa, come i sudanesi, ma c’è anche una piccola percentuale di rohingya.
Tra i 208 richiedenti asilo e rifugiati assistiti da Msf a Nauru, 124 – ossia il 60 per cento – hanno pensato di togliersi la vita e 63 – circa il 30 per cento – hanno tentato il suicidio.
Inoltre, a 12 pazienti, tra adulti e bambini, è stata diagnosticata la “sindrome da rassegnazione”, una rara condizione psichiatrica in cui le persone arrivano a uno stato semicomatoso, sono incapaci anche di mangiare o bere, e hanno bisogno di cure mediche per restare in vita.
Abbiamo chiesto a Sara Giorgi di descriverci il contesto in cui si è trovata a operare.
L’isola conta circa 10mila abitanti e circa 150 richiedenti asilo si trovano nei centri di detenzione in attesa di ricevere risposta alla loro domanda.
Un migliaio di rifugiati, che prima vivevano in tende circondate da filo spinato, a seguito di pressioni internazionali sono stati spostati e alloggiati all’interno di container.
Per arrivare al supermercato più vicino dovevano camminare delle ore. Passava un autobus ogni ora. E per delle persone in stato di sofferenza prendersi un tale impegno non è qualcosa di automatico.
Tra le persone che si rivolgevano al nostro centro c’erano persone con livelli di disperazione altissimi, mai riscontrati prima. Mi toccava particolarmente il numero di bambini, tantissimi avevano problemi gravi e c’erano intere famiglie distrutte.
Se stava male il bambino, i genitori erano talmente stanchi che non ce la facevano a farsi carico del supporto al bambino. Quando stavano male i genitori erano i bambini a doversi prendere cura di entrambi, e questo determina un carico sproporzionato per un bambino.
Abbiamo raccolto diverse testimonianze in questi 11 mesi. I pazienti che sono passati dal nostro centro hanno portato storie di violenze accadute prima, durante e dopo il viaggio.
Sono storie di persecuzioni, violenza e insicurezza del loro paese d’origine, che sono continuate in Indonesia o sull’Isola di Natale – per chi di loro è passato da lì – e poi a Nauru stesso.
Quello che si prospetta in genere a un rifugiato che richiede asilo è di approdare in un luogo sicuro, dove possa ricominciare la sua vita da dove questa è stata interrotta. A Nauru questo non è possibile. Neanche i bambini sono al sicuro. Tanti sono stati vittime di bullismo da parte di bambini locali. Non c’è un’integrazione tra le due popolazioni.
Ciò che chiedevano – e questa frase mi è rimasta dentro, era come un mantra – è: “voglio la libertà”.
Sì, di muoversi, di scegliere, di ricominciare la propria vita.
La ricaduta è stata devastante. Noi monitoravamo dei dati di richieste d’aiuto in modo regolare. Si osservavano dei picchi in corrispondenza di determinati eventi interni o esterni.
Uno di questi eventi è stato il rifiuto in massa da parte degli Usa delle domande di asilo dei cittadini iraniani.
Per loro rappresentava l’ultima speranza. Aver perso questo ultimo appiglio è stato devastante: chi stava male è stato peggio, chi stava bene è stato male.
Mi colpivano soprattutto le testimonianze dei giovani. Una ragazza mi ha detto: “Quando sono arrivata sull’isola avevo vent’anni. Ora ne ho 25. A quest’ora sarei stata già laureata”.
Altre ragazze rinunciavano alla maternità, non volevano che il proprio figlio nascesse a Nauru. Non sapevano quale futuro gli avrebbero potuto assicurare.
È una situazione che limita non solo il presente, ma anche la progettualità. Soprattutto per la continua incertezza.
Potevamo provare a tenere acceso quel filo di speranza, ma è difficile.
Si è visto anche che, a parità di cure, i residenti di Nauru – anche con problemi di salute mentale gravi – riuscivano a stabilizzarsi.
Con i rifugiati, il rifiuto del visto annullava tutto e bisognava ricominciare da zero. Erano talmente fragili che anche un semplice incidente stradale ne provocava il crollo.
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