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Missive dal carcere

Anche l'Egitto ha i suoi Silvio Pellico

Di Azzurra Meringolo
Pubblicato il 11 Feb. 2014 alle 22:59

Dove non c’è pane e neppure libertà. Anche l’Egitto che si affida alla soluzione militare ha i suoi Silvio Pellico. L’Egitto che ha rinunciato al compromesso politico mangia i figli della sua rivoluzione e li confina dietro le sbarre. È qui che i rivoluzionari del 2011, quelli che ora sono etichettati come terroristi teppisti – a volte anche omosessuali finanziati da potenze straniere –, tornano a marcire, come era già capitato loro negli anni più duri del regime del vecchio faraone.

Ed è da queste celle – dove l’aria non è mai cambiata – che questi attivisti scrivono su surrogati di carta lettere che, una volta uscite clandestinamente, viaggiano a rilento nell’arena virtuale. Nel 2011 sarebbero diventate virali in un paio di giorni, ora a farle circolare sono le poche voci stonate di chi non si associa al coro nazionalista, rifiutando di cantare l’ode ai militari.

“Non c’è pane e non c’è libertà”, scrive Ahmed Maher riprendendo gli slogan di quella rivoluzione che chiedeva “pane, libertà e giustizia sociale”. Maher è il fondatore del Movimento del 6 aprile, uno dei due gruppi giovanili che organizzò i cortei che nel 2011 arrivarono a occupare piazza Tahrir. La morsa repressiva del vecchio regime la conosce bene, visto che è stata la macchina della violenza di Mubarak a fracassargli la schiena di frustrate e poi a rinchiuderlo in carcere quando organizzava cortei che contestavano la sua autorità. “Scrivo di nascosto con un moncone di matita, dopo aver sbocconcellato un pezzetto di pane raffermo”, aggiunge Ahmed, fino a poco tempo fa uno dei ragazzi di piazza Tahrir più reclamati in Italia. Dalla Comunità di Sant’Egidio all’Università Bicocca, anche da noi Ahmed aveva consumato quelle “colazioni e cene sontuose con uomini celebri e potenti” che menziona nella sua lettera del 10 dicembre. Ma più che una missiva, la sua è una sequenza di pezzi di carta igienica, fatti uscire segretamente dalla prigione di Tora.

A prendere “carta e penna” è anche Alaa Abdel Fattah. Non c’è due senza tre e il quattro vien da sè, verrebbe da dire a chi segue da anni le vicende di quello che nell’arena virtuale è conosciuto semplicemente come @Alaa. La prima volta a mandarlo in carcere fu la giustizia di Mubarak, infastidita nel vedere questo giovane che nel 2005 creava il primo aggregatore di blog dove iniziavano a circolare discorsi “sovversivi”. Dopo il rilascio, Alaa era andato via dall’Egitto con la moglie, Manal, ma era tornato dal Sud Africa nel gennaio 2011 per partecipare alla rivoluzione.

Nell’ottobre di quell’anno furono i militari ad arrestarlo, proprio mentre la moglie stava per dare alla luce il figlio Khaled Alaa. All’inizio del 2013 a mettergli le manette è stata la giustizia islamista, a dicembre le nuove autorità transitorie. I generali l’hanno accusato di aver organizzato una manifestazione contro i tribunali militari, senza chiedere l’autorizzazione al ministero degli Interni. Tutti i governi hanno cercato di mettere a tacere la scomoda voce di Alaa, cresciuto in una famiglia dove si è abituati a combattere ogni forma di autoritarismo. Suo padre, Ahmed Seif al Islam, è uno dei più noti avvocati egiziani, un uomo che ha a sua volta scontato cinque anni di carcere per la sua attività sovversiva durante il regime del vecchio faraone. Sua madre, Leyla Soueif, insegna alla Cairo University ed è sorella di Adah Soueif, una delle più note scrittrici egiziane della diaspora, famosa soprattutto in Gran Bretagna. A completare la squadra “sovversiva” di famiglia è la sorella Mona, fondatrice della commissione contro i processi civili nei tribunali militari. È a lei che Alaa indirizza questa lettera.

“La cosa più brutta del carcere è che c’è chi controlla il tuo tempo, al punto che sei persino privato del diritto di tremare di paura”, scrive mentre batte i denti per il freddo che entra dalle finestre blindate, ma prive di vetro. “Mi sono anche perso l’unica nevicata egiziana della mia vita”, aggiunge, chiedendo dettagli sull’inedito panorama cairota che a metà dicembre si è tinto di bianco grazie a una storica spolverata di neve. “A Khaled è passato il raffreddore che non lo lasciava dormire la sera che la polizia ha fatto irruzione a casa per arrestarmi? Ridurranno il tempo delle visite in carcere, visto che iniziano a pensare di negarle per evitare che i membri della Fratellanza – quelli che nel 2013 lo avevano incarcerato [Ndr] – ne approfittino per dare ordini” ai pochi rimasti a piede libero fuori? “Negoziando con i miei guardiani qui le condizioni migliorano. Abbiamo trattato per una settimana sui giornali e le radio. Adesso stiamo negoziando sulle lettere. Mi hanno promesso che questa vi sarà consegnata. […] Sono esausto, ma, come in passato, passerà. Quando tornerò troverò Mona presa con le sue lotte […] Io sarò impegnato con Manal e Khaled e con qualunque nuova notizia mi faccia arrabbiare, dandomi la forza di resistere, ancora.[…] La vita va avanti, ma l’oppressione dell’anima è difficile”.

Questo post è stato pubblicato su Lettere Internazionali

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