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Mario Schifano. Una Vita al Massimo

Un personaggio carismatico, generoso, anti-conformista. Incontenibile e inarrestabile. Senza Schifano, Roma non è più la stessa

Di Carlos D'Ercole
Pubblicato il 22 Nov. 2012 alle 12:52 Aggiornato il 27 Nov. 2018 alle 10:19

Mario Schifano Una Vita al Massimo

Negli anni Sessanta a Roma non esiste un mercato dell’arte. I nobili non mostrano alcun interesse e il generone spende in ben altro. Tutto cambia con Mario Schifano, che diventa una celebrità con i suoi monocromi e imponendo il suo stile di vita.

Donne amate e liquidate in un secondo (“Che fai, soffri ?”), MG bianche comprate e distrutte il giorno dopo (un altro senza patente), eroina, cocaina e oppio consumati in modo febbrile (“Maestro, c’è sempre questo odore strano da lei…” “Sto preparando dei prodotti chimici per i colori…”), provocazioni ai committenti (Agnelli gli chiede un quadro per la sua sala da pranzo a Roma e lui gli dipinge il sacrilego Festa Cinese, un tripudio di bandiere rosse).

Invidiato dagli altri pittori perché “gli artisti intuiscono sempre, molto prima dei critici,il valore di un altro”, dagli amici Franco Angeli e Tano Festa, i demoni di Piazza del Popolo, che rosicano per il suo successo, da Moravia che pensa che gli artisti siano più felici perché meno cerebrali degli scrittori.

Neanche Marianne Faithfull resiste al suo fascino, arrivando a mollare Mick Jagger : “La cosa che più mi è rimasta impressa erano i suoi occhi, aveva due occhi fiammeggianti che mi hanno catturato, per due mesi non ha mai distolto lo sguardo da me, mi guardava sempre, anche quando dormivo. Ogni volta che mi svegliavo, lo trovavo lì che mi guardava. Non mi sono mai più sentita così amata”.

Mazzoli, il mercante d’arte, conserva ancora il ricordo del suo primo incontro: “La mia impressione è stata, come aveva scritto Goffredo Parise, di avere vicino un puma, un gatto, un felino: era da tutte le parti. Parlava tre minuti qui, poi andava in cucina, apriva il frigorifero e mangiava un pezzo di carne cruda. Poi prendeva enormi fruttiere, correva da una parte, arrivava, beveva una Coca-Cola, un secondo dopo beveva un bicchiere di vino”.

Incontenibile, inarrestabile Mario Schifano. Che a un certo punto si stanca di dipingere e invece di replicare vecchi successi a uso e consumo di ricchi collezionisti, si butta sul cinema sperimentale, con blitz parigini da Godard e avventure californiane spesate da Carlo Ponti. Una bellissima biografia, uscita qualche mese fa per i tipi di Johan & Levi, curata da Luca Ronchi, racconta questa vita al massimo, affidando agli amici e al suo entourage la storia orale di un personaggio carismatico, generoso, anti-conformista.

“Stamani stavo alla finestra e mi è parso di vedere un uccello che volava all’indietro come se tornasse indietro nel tempo. Allora mi sono ricordato dei cieli e delle terrazze di Roma, della terrazza di piazza Scanderbeg dove Mario Schifano lavorava dipingendo con gli smalti grandi tele appoggiate sul pavimento. Quello era il suo studio en plein air. Lavorava, lavorava, sembrava un combattente dell’arte. Non ho più rivisto quei cieli di allora”. Aveva ragione Plinio De Martiis. Roma non è più la stessa senza Mario Schifano.

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