L’America bombarda nuovamente l’Iraq, Israele bombarda nuovamente Gaza e il Medio Oriente intero perturba nuovamente la leggerezza della nostra estate trasognante. Il “terrore islamico” ha persino scalzato dalle pagine esteri delle nostre testate l’imperante presenza di principessine col pancione, scandali di corte, vizi e stravizi di presidenti, re e imperatori di questo emisfero, perché il califfo è tornato.
L’incipit ironicamente dissacrante non vuole affatto sminuire la portata di un gigantesco problema politico, geopolitico, sociale, economico e culturale come quello dello sfaldamento del Levante arabo: oltre 100mila morti nella guerra tra il regime criminale di Assad e i ribelli, 9 milioni di sfollati tra interni ed esterni al Paese, un Iraq, il cui collasso sembra non vedere mai un limite abbastanza profondo da potersi arrestare. Due Paesi ricchi di storia millenaria ridotti a un cumulo di macerie, mentre cruente milizie di fanatici islamisti mettono a ferro e fuoco quel poco che resta, annunciando il tramonto definitivo dei confini coloniali.
L’altro focolaio è Gaza, implosa in poco più di un mese sotto i colpi dell’esercito di difesa israeliano (IDF), che ha sganciato sulla Striscia oltre 20 mila tonnellate di esplosivo (l’equivalente di 6 bombe atomiche), 17mila case buttate giù e un danno di circa 6 miliardi di dollari. Per non parlare della Libia, meno in voga nello spettro mediatico per il relativo isolamento della sua crisi domestica – incapace, cioè, di produrre uno spillover significativo di insicurezza – ma che ha già di fatto sancito il fallimento del processo di ricostruzione dello stato, lasciando spazio a un pericolosissimo spezzettamento del monopolio della violenza.
La diffusa reazione ‘occidentale’ di fronte al magma incandescente di questi eventi è, ancora una volta, pressoché univoco: “l’Islam è la matrice di questi conflitti, l’Islam è il problema”: un Islam dal volto unico, violento per natura e incapace di essere ragionevole.
Il sensazionalismo con cui il califfo al-Baghdadi minaccia su Twitter di far sventolare la bandiera dell’Islam su San Pietro o quello con cui i suoi seguaci (alcuni di loro hanno a occhio e croce meno di dieci anni) si confessano “vogliosi del sangue degli infedeli” a una occidentalissima troupe ‘embedded’ negli headquarters del califfato – che lancia un esclusivissimo documentario a puntate (tanto per creare un po’ di suspense da telenovela presso noi di questa riva del Mediterraneo) –, il cruento video della decapitazione di James Foley, certo non aiutano a scomporre gli eventi e analizzarli nella loro complessità e multi-causalità. Ma “qui chi non terrorizza, si ammala di terrore”, cantava Fabrizio De André.
L’Islam è diventato un concetto essenzialista e a-storico: privato, cioè, di tutta la sua complessità fenomenologica e la sua dimensione temporale: quello che catturiamo nel “presente” di un’immagine selezionata da altri diviene “il concetto” e, al contempo, “la spiegazione” di tutto ciò che accade. Senza possibilità di visioni alternative, perché, “essenzializzando la cultura e la religione – scriveva Fred Halliday – il nostro punto di vista diviene necessariamente quello veritiero”. Così una banda di decapitatori di professione diviene il “vero volto dell’Islam”; un bambino che si fa esplodere di fronte al soldato di un esercito invasore la rappresentazione dei bambini musulmani, etc.
Questo processo non è soltanto l’antitesi intellettuale di quello che Karl Popper definiva il “nominalismo metodologico”, invogliandoci a sostituire al “cos’è?” il “come accade che?”, ma diviene pericolosamente fuorviante quando a essere in ballo sono gli interessi di potenza, la nostra sicurezza e la percezione delle minacce.
Quando la matrice unica di un conflitto diviene la “civiltà” o la “cultura”, infatti, nessuna spiegazione alternativa è in grado di reggere. E a cosa volete che serva richiamare alla memoria quanto Ibn-Sīnā (o Avicenna) fu fondamentale per ricostruire alcune lectiones dei manoscritti di Aristotele, quando siamo già caduti nell’amnesia di tutte le guerre di religione che abbiamo combattuto sul suolo europeo, della violenza che nell’età dei nazionalismi l’Europa ha saputo produrre con le due guerre mondiali, oltre ai mostruosi fenomeni che la dimensione bellica generò, dai campi di sterminio nazisti ai gulag (una bella concorrenza alla barbarie dello Stato Islamico)?
Quando, poi, il conflitto ci chiama direttamente o indirettamente in causa, esso diviene un gioco somma-zero, in cui gli interessi economici, politici e strategici degli attori in gioco perdono tutto il loro valore: la logica a questo punto ci impone che quello per cui ci stiamo battendo è la preservazione e la difesa della nostra “civiltà occidentale” contro la “civiltà islamica”.
Così non solo non siamo capaci, ma non siamo ancor prima disponibili a fare distinzione tra quelle che Tucidide definiva le aitia (i “pretesti”, le “cause apparenti”) e la alethestate profasis (“la ragione più vera”) delle guerre e dei conflitti.
Con questo – attenzione – non voglio dire che il fanatismo religioso non sia presente nelle intenzioni di chi viene reclutato, indottrinato e mandato a combattere il jihad. Ma, mentre è difficile negare il carattere (non la matrice!) “religioso” della violenza che sta facendo razzia del Levante arabo, quando si prendono in esame gli individui e l’identità di chi combatte o si arruola presso i ranghi dello Stato Islamico, è al contempo assurdo non distinguere tra il campo di battaglia e la dimensione architettonica della violenza. Quest’ultima, d’altra parte, per potersi manifestare deve anche essere munita degli strumenti e degli incentivi economici per farlo.
In altri termini, alla semplicistica logica del “conflitto religioso” è fondamentale quantomeno accostare un semplice assunto di una consolidata tradizione politologica: quella che, in termini giustinianei, vede la religione come instrumentum regni – che ne apprezza il suo aspetto funzionale a ottenere e preservare il potere.
La questione è, insomma, ben più complessa di come veniva liquidata qualche giorno fa sul Corriere da Ernesto Galli Della Loggia, il quale – applicando una logica, a suo parere, impeccabile – si chiedeva retoricamente perché “se un sunnita ammazza uno sciita o un cristiano e l’altro si difende, questo non dovrebbe essere un conflitto religioso”.
È così naïf, invece, ricordare che dietro la violenza tra sunniti e sciiti ci sia una dimensione squisitamente politica e geopolitica? La distribuzione del potere in Iraq, ricostruito dopo la deposizione di Saddam in base a una logica settaria, con una miope applicazione del modello libanese (che nel Libano stesso non ha mai funzionato), non ha posto le basi perché chi andasse al potere implementasse politiche settarie, in virtù del collaudato principio del divide et impera?
Lo smantellamento dello storico esercito iracheno (voluto dagli americani con fine punitivo), ricomposto in base ai gruppi religiosi, non ha sancito la fine del monopolio statale della violenza e l’avvento delle milizie a colore religioso? E, in termini più macroscopici, la rivalità tra sunniti e sciiti non va forse ricondotta alle potenze del Golfo, all’Iran e alla loro rispettiva politica di potenza?
E rimanendo all’interno stesso della dimensione sunnita, possiamo negare che dietro l’ostracizzazione dei Fratelli Musulmani nel mondo arabo ci sia l’intento di sopprimere una manifestazione dell’Islam ‘politico’ in competizione con la Wahhabiya (il cui centro propulsore è l’Arabia Saudita) e con i partiti e i gruppi salafiti che a essa fanno riferimento?
L’alleanza tra alawiti e cristiani in Siria non è forse legata a chiarissime aritmetiche del potere? E invece abbiamo ormai riabilitato un regime sanguinario e brutale come quello di Bashar al-Assad perché ci appare l’unico protettore dei cristiani. Senza renderci conto di essere caduti in una trappola squisitamente “politica” che Assad stesso ha saputo creare nel corso dell’evoluzione di questo conflitto, ergendosi a scudo contro l’estremismo islamista, per poter riacquistare legittimità internazionale e perfino il ben volere delle opinioni pubbliche occidentali. Perché chi ha confidenza con il potere conosce fin troppo bene le nostre paure e sa come manipolarle.
E che dire di un conflitto che abbiamo sempre definito “arabo-israeliano” (con un evidente riferimento a due nazionalismi e due progetti politici contrapposti), trasformato in una guerra tra ‘giudaismo’ e ‘islamismo’ – un conflitto di civiltà, con buona pace dei palestinesi non musulmani, che rivendicano il diritto al loro stato, ma che sono stati risucchiati dall’esigenza “essenzialista” di ridurre un conflitto pluridecennale per la “terra” a una lotta tra due dimensioni monolitiche di “civiltà”?
Israele, nel forgiare questa narrativa, identificando la controparte palestinese con il discorso abietto di Hamas (che è solo ‘uno’ degli attori politici palestinesi) cela volutamente la dimensione della lotta per la difesa e la rivendicazione della terra. Questo, d’altra parte, trova un perfetto complemento nel fatto che la battaglia di Israele sia diventata sempre di più una lotta per la preservazione degli “ebrei”, l’evocazione della “terra santa” la giustificazione per rivendicare un diritto ancestrale: anacronistico rispetto all’ordine internazionale sorto con la seconda guerra mondiale e all’interno del quale è nato lo stato di Israele, e automaticamente delegittimante verso chiunque altro rivendichi quella terra o persino il diritto a resistere all’occupazione. Quest’ultimo, d’altra parte, viene rappresentato come il negazionista della “civiltà ebraica”, mentre l’atto stesso dell’occupazione viene mitizzato come “ritorno alla terra promessa”.
In base a questa logica, la storia degli altri non viene solo negata, ma vengono abortite persino tutte le convenzioni giuridiche che l’ordine liberale post-seconda guerra mondiale – emanazione di quella “civiltà occidentale”, fondata eziologicamente su radici “giudaico-cristiane” – ha creato. Si arriva così a un clamoroso e ipocrita paradosso: il diritto internazionale, il rispetto dei diritti umani, le convenzioni e quell’apparato di mores che reclamiamo come prerogative di questa “nostra civiltà” possono essere tranquillamente negate al fine di preservare quella stessa “nostra civiltà”. La vita dei bambini israeliani (o qualcuno preferirebbe “ebrei”) vale molto di più di quella dei bambini palestinesi. Che Israele li prelevi e li torturi sistematicamente non è un problema, anche perché, nella più comune visione essenzialista dell’Islam, “loro”, i musulmani, sarebbero comunque disposti a “farsi esplodere contro di noi per andare in paradiso”.
Le “loro” condizioni per la tregua – lo smantellamento delle colonie illegali, la fine dell’embargo illegale, il rispetto del diritto di potersi spingere per oltre 3 miglia dalla costa o voler costruire un aeroporto, diventano “richieste surreali”; il non accettare una resa umiliante il prodotto di una “mente islamica” o “terrorista”, che non si capisce neppure bene cosa precisamente significhi. Chissà come Tucidide, autore del celebre dialogo tra i Meli e gli Ateniesi (qui il link), avrebbe descritto l’atteggiamento di Hamas negli ultimi negoziati del Cairo…
Se esistono, inoltre, una “civiltà occidentale” e una “civiltà islamica”, che hanno prodotto una serie di dimensioni culturali diverse e connotate geograficamente e spazialmente, l’osservatore intellettuale deve scegliere (giustificando empiricamente la sua scelta) se ritiene la “civiltà” un bagaglio di esclusiva fruizione di determinati individui, e se la “cultura” sia o meno una gabbia immutabile, inscritta nel DNA dell’individuo o, al contrario, nella sua esperienza.
Non è, però, difficile mostrare come la prima di queste opzioni obliteri l’esperienza storica condivisa tra il mondo occidentale e orientale. In altri termini, quel presunto monolitismo delle “civiltà”, che è alla base della altrettanto presunta inevitabilità del conflitto, non riconosce che l’Oriente e l’Occidente siano prodotti ibridi l’uno dell’altro. Il mito della relazione tra geografia e civiltà è per l’appunto un mito. Chi vede nell’antica Grecia l’embrione dell’Occidente moderno saprà forse quanto i greci presero dai popoli orientali con cui interagivano costantemente (si legga il libro di Santo Mazzarino, “Tra Oriente e Occidente. Saggi di Storia Greca arcaica”).
Chi rivendica con ardore le “radici giudaico-cristiane” dell’Occidente saprà che il cristianesimo è un prodotto orientale. E, ripercorrendo ancora la storia, non possiamo negare che le dominazioni musulmane abbiano marcato il patrimonio culturale, artistico e linguistico di parte dell’Europa, così com’è impossibile non riconoscere che gli stati arabi siano anche il prodotto della lunga esperienza di dominazione e colonizzazione europea di quelle terre.
Per di più, in questo costante ricorso ai termini mitizzati di “civiltà” e “cultura” nel descrivere il conflitto che oppone oggi l’Occidente all’Islam, ci inganniamo (o ci facciamo ingannare) anche sul fatto che dietro quelle che ci paiono oggi le più importanti “emergenze securitarie” si celino interessi economici e politici inalienabili. Tra i luoghi comuni più in voga oggi c’è, per esempio, l’assunto per cui se il figlio d’immigrati musulmani studia e cresce in Europa ma poi va a combattere il jihad in Siria, questa è la prova che la cultura sia inscritta nel DNA.
È certo sbagliato negare la dimensione dell’ideologismo e del fanatismo del singolo, ma il fenomeno in sé non può essere né capito, né tantomeno contenuto, se non viene collocato all’interno di un’analisi al contempo sociologica, economica e politica, che apprezzi anche onestamente la portata minima del fenomeno stesso rispetto ai milioni di musulmani immigrati, pacificamente integrati e senza alcuna fascinazione per la violenza a carattere confessionale.
Chi parte per combattere il jihad? Qual è il background di questi individui? Quali sono gli incentivi economici dati alle famiglie? E, soprattutto, chi finanzia il terrore che ci terrorizza? In che misura i sistemi economici occidentali, marcati da una sempre più feroce diseguaglianza socio-economica, siano responsabili nel relegare le fasce più deboli in uno spazio così angusto da rendere la violenza l’unica abbordabile droga dello spirito? Ci sono risposte ‘politiche’ che possono essere date a questo fenomeno, oltre il montante odio razzista che sta prendendo piede in Occidente? Perché se la risposta non è politica, finiremo per essere seppelliti dalla nostra stessa trivialità, prima ancora che qualche cataclisma faccia in tempo a scuoterci.
D’altra parte, i produttori della macchina internazionale del jihad conoscono perfettamente la relazione tra deprivazione socio-economica e terrorismo (ampiamente studiata) quando vanno a pescare i loro adepti. Che dire, a tal proposito, delle ufficiose madrasse d’indottrinamento e lavaggio del cervello (concettualmente diverse dalle Moschee come luogo di culto!) che l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo, i nostri principali alleati nella regione, finanziano, andando a reclutare giovani degli strati sociali più marginalizzati.
E la domanda ancora più cruciale è: perché i nostri servizi d’intelligence permettono che i centri di indottrinamento continuino a funzionare, che il denaro per finanziarle fluisca all’interno dei nostri stati? Basterebbe forse prendere un prospetto degli investimenti dei fondi sovrani del Golfo nelle nostre economie per avere un quadro più preciso di come la nostra “civiltà occidentale” non si faccia poi così tanti scrupoli a fare affari con stati palesemente illiberali, bigotti e finanziatori di quei gruppi estremisti che ci terrorizzano così tanto.
Non sarebbe forse più onesto riconoscere che quando si tratta di “business” ci sentiamo magicamente così cosmopoliti da accettare condizionalità di ogni sorta? Non è forse che abbiamo erroneamente pensato di riuscire a contenere un fenomeno che monitoravamo da tempo (altro che “presi alla sprovvista”) sfuggitoci a un certo punto di mano? Che non abbiamo potuto bloccare le attività di “diffusione dell’Islam” (per cui l’Arabia Saudita ha un ministero ad hoc) usate dai nostri alleati per legittimare il proprio potere, mentre iniettavano quattrini vitali nelle nostre economie in crisi? Basterebbe gettare un occhio su alcuni degli oltre 2 milioni di documenti segreti su Wikileaks (reperibili on line) per capire come in Iraq, in Siria, in Afghanistan e Pakistan le monarchie del Golfo abbiano per anni finanziato gruppi estremisti per perseguire i loro fini ultra-politici.
Come un’onda potentissima che ha assorbito a lungo, sotto la coltre di una quiete apparente, tutta la sua dirompente energia, il Medio Oriente ci sta sbattendo contro il precipitato deflagrante di una serie di longevi e complessi fenomeni socio-economici e politici mal o mai gestiti.
Il processo di erosione delle società arabe non si è scatenato con le cosiddette “Primavere arabe”, come alcuni pensano negli attimi di nostalgia dei vecchi amici dittatori, ma è un fenomeno in atto da decenni, sotto il peso di regimi, alleati dell’Occidente e tenuti in vita da essi, che hanno oppresso i propri popoli, monopolizzando le risorse pubbliche, allocandole presso una cerchia elitaria di pochissimi ‘cooptati’ che agli altri hanno lasciato a malapena le briciole.
Non si può comprendere fino in fondo il fenomeno dell’estremismo islamista se non lo si inquadra nel degrado sociale ed economico delle popolazioni arabe, non si può scindere il richiamo alla violenza e la disponibilità acritica all’indottrinamento, se non si considera quanto soffocante e angusto sia lo spazio del futuro per i giovani del mondo arabo. L’Islam militante e violento, così come l’Islam politico che abbiamo visto esprimersi alla luce del sole (ovvero al riparo dallo stato d’illegalità cui i nostri alleati “laici” li avevano costretti per decenni) dopo il 2011, si è fatto strada tra le macerie degli ‘stati’ postcoloniali che non hanno saputo mai creare “cittadini” – un virtuoso artificio identitario, il cui obbligato passaggio non può che essere rappresentato da istituzioni inclusive e trasparenti, un’equa distribuzione delle risorse e un livello diffuso di dignità del vivere quotidiano, garantiti da governi “rappresentativi” e non autoreferenziali.
Questa realtà è del tutto offuscata dall’imperante essenzialismo culturalista e spesso apertamente razzista, che – anzi – spesso vede nell’Islam stesso la causa del sottosviluppo delle società arabe. Senza ovviamente tener conto delle monarchie petrolifere del Golfo, che hanno soldi a sufficienza per distribuire ricchezza tra le proprie popolazioni, senza imporre tasse, così comprando il loro favore, assieme a quello dei nostri governi e uomini d’affari.
Nel continuare a diffondere conoscenza imprecisa e sensazionalista, figlia di essenzialismo e presentismo, di cui spesso sono intrisi i nostri giornali e le stesse miopi scelte dei nostri governanti, non riusciamo neppure a comprendere che i problemi, se non vengono compresi nella loro fenomenologia e risolti alla radice, si ripresenteranno ciclicamente più dirompenti di prima.
Questo non è uno sterile appello al pacifismo in tempi di guerra, ma ad andare oltre l’interpretazione semplicistica della “guerra santa” o del “conflitto di civiltà” – alimento di triviali fanatismi di ogni sorta. Anche perché, continuando a iniettare armi nei conflitti mediorientali, finanziando all’occorrenza questo o quel gruppo, sbarcheremo il lunario nel contingente, ma di certo ciò non basterà a non ritrovarci nel medio periodo di fronte lo stesso identico problema. In scala ovviamente ben maggiore.
Leggi l'articolo originale su TPI.it