Il “politichese”, si sa, fa parte del gioco democratico. Anzi, tutto sommato ne costituisce anche un tassello prezioso, seppur tanto vituperato dalla “società civile”. Potrà ostacolare la trasparenza, ma offre spesso alle forze politiche la possibilità di guadagnare tempo, cautelarsi, evitare prese di posizione troppo affrettate. Al suo meglio, quindi, il politichese può essere quasi considerato una sorta di difesa per la politica ragionata.
Esso, però, è anche un’arma a doppio taglio di cui non si deve abusare, e che per funzionare richiede una certa maestria. Se impiegato goffamente, e in momenti in cui gli elettori avrebbero bisogno di segnali forti, il gioco viene smascherato. E i risultati in genere sono catastrofici.
Si guardi al rifiuto da parte del Pd di appoggiare Rodotà per la Presidenza della Repubblica. Finché il candidato era Marini, la motivazione della necessità di un uomo che non dividesse il paese aveva una sua logica. Ma con Prodi? La rottura coi berlusconiani è consumata, perché non sfruttare questa rara occasione di convergenza con Grillo, peraltro su una sorta di eroe vivente della sinistra italiana? I motivi addotti dal partito per il suo mancato sostegno al candidato del M5S appaiono più confusi che mai.
Per il vicepresidente Ivan Scalfarotto, ad esempio, “non è la persona che conta, è il metodo che conta. Perché nel momento in cui facciamo un accordo politico, lo facciamo sul metodo non lo facciamo sulla persona di Rodotà. […] Cosa facciamo, decidiamo il Presidente della Repubblica sulle mie simpatie o sulle simpatie della maggior parte delle persone che sono sedute qua dentro [in Parlamento, ndr]? Io penso che si scelga il Presidente della Repubblica su delle cose da fare, su un programma, una visione del paese. Invece stiamo scegliendo Rodotà perché è arrivato terzo.” Chiaro no?
Come nota bene Flavio Alivernini sulla Stampa, queste circonvoluzioni, registrate proprio mentre in sottofondo la folla davanti a Montecitorio scandisce forte e chiaro il nome di Rodotà, sono “la perfetta metafora del Partito Democratico”. Gli elettori (attuali o potenziali) mandano dei segnali, ma la dirigenza non vuole raccoglierli. Prova a mascherarlo, ma non ne è capace. Si affida al politichese più controproducente, quello della disperazione. E perde, ancora e ancora.