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Il minareto della vergogna

Sulla guerra e sulla distruzione del patrimonio artistico.

Di Marina Calculli
Pubblicato il 25 Apr. 2013 alle 11:07

Non avrei voluto inaugurare questo blog raccontando del minareto della grande moschea degli Omayyiadi di Aleppo, ieri ridotto ad un cumulo di macerie durante i combattimenti tra le forze militari fedeli a Bashar al-Asad e i ribelli antigovernativi. Ma il condensato di ricordi personali e rabbia, unito al dovere di non far sparire dai nostri racconti la narrazione di un conflitto devastante come quello siriano, stamattina martella la mia mente e si impone prioritaria sulle incombenze e le velleità della mia penna. Ma soprattutto mi induce a riflettere su un aspetto spesso obliterato delle guerre e dei conflitti: quello – cioè – della distruzione indiscriminata dei monumenti e delle opere d’arte. La furia bellica altera la condizione sociale dell’uomo, riconducendolo alla sua più primordiale essenza animale. E così la guerra, spesso sinonimo di tante dolorose impunità, finisce per giustificare anche il mancato rispetto per la storia e per quelle vestigia del passato che ci ricordano quanti uomini hanno calpestato lo stesso suolo sul quale camminiamo.

La mia prima visita alla grande moschea di Aleppo è perfettamente incisa nella mia mente. Era mattina molto presto, al termine di un viaggio notturno a bordo di un taxi guidato da un tassista armeno che fumava come una ciminiera, facendo infuriare il mio compagno di viaggio, ex fumatore ormai redento dal vizio e, soprattutto, ormai intollerante ad esso. Arrivando in macchina da Beirut nella valle dello storico fiume Oronte, dove sorge Aleppo, si passa per le antiche Ebla e Apamea, quest’ultima sede celebre della pace che nel 188 a.C Roma firmò con il sovrano seleucide Antioco III. Per una classicista come me già una bella botta di emozioni.

Nel sito della Grande Moschea di Aleppo (Jāmi‘ Halab al-Kabīr), costruita all’inizio dell’VIII secolo sotto i califfati di al-Walid e Suleiman, i resti dell’antica agorà ellenistica sono (o erano?) ancora visibili. La moschea era già stata fortemente danneggiata durante alcuni scontri lo scorso Ottobre, mentre il minareto distrutto ieri era miracolosamente rimasto intatto per quasi un millennio, proprio così come doveva stagliarsi nel cielo di Aleppo nel 1092, quando fu completato. Un violento terremoto gli aveva impresso una profonda crepa ma la natura, allora, era stata assai più generosa degli uomini.

Così il minareto di Aleppo finisce in fondo alla lista dei doni del passato che non vedremo più. A me resta solo la fortuna di custodirne il ricordo in quella mattina assolata, avvolta in una abeya bianco latte. Nell’est della Siria, quasi al confine con l’Iraq sorge invece Palmira. Anche lì i resti di una delle città romane meglio conservate del mondo sono già stati danneggiati e saccheggiati. Così come dal 2003 i musei e i siti archeologici di Baghdad, Mosul e Kirkuk, nel vicino Iraq, sono stati infinite volte depredati. Ma gli sciacalli e gli assassini della memoria sguazzano anche nella reticenza e nella mancanza di misure che proteggano i patrimoni artistici. Pare sia la guerra, bellezza: la bestialità istituzionalizzata in cui tutto ciò che è per cultura illecito diventa naturalmente lecito. E la storia, intanto, si allontana, lasciandoci sempre più intrappolati in un presente che diventa sempre più indecifrabile a mano a mano che diventiamo sempre meno capaci di decifrare – e rispettare – il nostro passato.

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