Quando la notizia della morte di Hugo Chavez ha fatto il giro del mondo, pochi americani hanno pianto. Uno di loro era Oliver Stone. Il celebre regista aveva infatti allacciato un rapporto di amicizia con il presidente venezuelano in occasione delle riprese di ‘South of the border’, documentario con cui Stone, da sempre molto critico verso il proprio Paese in materia di politica estera, si prefiggeva di squarciare la cortina di approssimazione e diffamazione che l’amministrazione Bush e i media statunitensi avevano proiettato sui governi di ispirazione bolivariana in Sud America.
A cominciare proprio da Chavez, che sulla sua fiera resistenza ai disegni di Bush ha costruito parte del suo carisma consegnando alle tv di tutto il mondo folkloristiche scenette di disobbedienza e sfida come il celebre discorso pronunciato alle Nazioni Unite nel 2006 in cui fece il segno della croce prima di parlare del ‘diavolo’ texano.
Grattando i limiti delle goliardiche villanie per cui il presidente Chavez era già piuttosto noto, Stone smaschera le ottuse e arroganti politiche di controllo che gli Stati Uniti da sempre hanno imposto ai loro vicini, raccogliendo a esempio almeno cinque prove di una regia statunitense dietro il golpe fallito che, nell’aprile 2002, scosse il palazzo di Miraflores. Primo di una serie di temi che i media americani trattarono con sommaria ignoranza, e che se letti onestamente avrebbero aiutato ad interpretare e magari correggere i rapporti con gran parte dell’America Latina.
Il nemico Chavez, è infatti la miccia di un processo rivoluzionario che Stone insegue attraverso la Bolivia di Evo Morales, l’Argentina dei coniugi Kirchner (Stone ha fatto in tempo ad incontrare anche Nestor), il Brasile di Lula, l’Ecuador di Correa, il Paraguay di Lugo, la Cuba di Raul Castro. Tutti presidenti che Stone incontra a tu per tu e che presenta al pubblico in maniera personale contrapponendo alla disinformazione di bandiera una controinformazione di stampo artigianale e persino sentimentale.
In questo senso le tare sono necessarie. Perchè Stone è un idealista sanguigno e un avventuriero, quasi un corsaro. Un Hemingway. E il giudizio della Storia è affidato (a volte rozzamente) al suo modo di sentire e interpretare il mondo, in contrasto con l’imparziale distanza che il linguaggio documentaristico dovrebbe adottare per escludere accuse di propaganda.
Tuttavia in questo stesso limite, che un giornalista del Guardian una volta ha opportunamente definito Stoneismo e che nel frattempo è sfogato nell’ambizioso progetto di una serie tv in 10 puntate (Oliver Stone’s Secret History of America), risiede tutto l’appeal delle sue opere più politiche capaci di destare, nel bene e nel male, sempre grande attenzione.
Il Chavez di Stone, presentato nel 2009 alla 66esima Mostra del Cinema di Venezia, ha infatti davvero poco in comune con l’immagine del Caudillo dipinta aldiquà delle frontiere. E anche solo per questa ragione si guadagna una distribuzione straordinaria in 150 sale il prossimo 16 aprile (titolo italiano: Chavez, l’ultimo comandante), vale a dire due giorni dopo le elezioni presidenziali in Venezuela.
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