La visita di Obama in Israele ha visto evidenti sforzi da parte del Presidente Usa e del premier Netanyahu di mostrare un’immagine di intesa e affinità, tanto a livello politico quanto umano. All’areoporto Ben Gurion, i due leader si sono sfilati la giacca con coordinazione perfetta, ansiosi di dare all’incontro un tocco di informalità; in conferenza stampa, sono fioccate le battute reciproche a proposito della bellezza dei rispettivi figli – chiaramente derivante, hanno sottolineato gli oratori, più dalle madri più che dai padri. Obama si è curato di non sollevare il problema degli insediamenti in presenza del collega, e Netanyahu ha contraccambiato ricordando che anche Israele è “completamente impegnato” per una pace con due stati e due popoli.
Molti commentatori hanno sottolineato l’astio che soggiace a questa cordialità di facciata. In realtà, i due si piacciono ben poco. Nei mesi scorsi, a Obama sono state attribuite parole dure (mai smentite) su Netanyahu, che avrebbe definito “codardo politico”. E non è un mistero che l’attuale premier israeliano sperasse in una vittoria di Romney a novembre.
Ma l’analisi più interessante in cui sono incappato è quella del politologo George Friedman. Secondo lui, in questo momento l’elemento fondamentale nella relazione fra i due paesi non è lo scontro fra diverse, appassionate visioni sulla questione mediorientale. Piuttosto, si registra un raffreddamento dei rapporti dovuto al venir meno dell’interesse per la politica estera, tanto negli Usa quanto in Israele. Sia per Obama che per Netanyahu, in questo momento le vere gatte da pelare sono sul fronte interno. Il primo deve fare i conti con budget ed economia, il secondo con la questione della coscrizione per gli ultra-ortodossi.
Dopo l’Afghanistan e l’Iraq, dopo la Libia, Washington è sempre più riluttante a farsi trascinare in “avventure” mediorientali, di qualunque genere. Tel Aviv dal canto suo, nonostante la retorica anti-iraniana, si sente molto più al sicuro che in precedenza; e può dunque permettersi di cedere (perdere?) l’iniziativa, adottando una strategia attendista basata sul “vediamo che fanno i palestinesi e reagiamo di conseguenza”.
Per Friedman, dunque, dietro la cordialità di ieri non si nasconde un risentimento carico di tensione, ma una routine sempre più segnata dall’indifferenza: “È come un matrimonio che continua con la forza dell’abitudine, ma le cui fondamenta si sono indebolite. Le fondamenta erano costituite dalla capacità di Israele di controllare gli eventi nella sua regione e di assicurarsi che, dove gli Israeliani fallivano, gli interessi americani portassero Washington ad agire. Nessuno dei due ha la capacità, la bramosia o il sostegno politico per mantenere la relazione in questi termini. […] In privato mi aspetto una fredda cortesia e in pubblico un’amicizia entusiastica, proprio come una coppia vecchia e annoiata, non vicina al divorzio, ma lontana dagli anni della gioventù. Nessuna delle due parti è ciò che era un tempo; ognuno sospetta che sia colpa dell’altro. Alla fine, ciascuno segue il suo destino, legati l’uno all’altro dalla storia, ma non più uniti.”