La notizia del DNA di maiale trovato nelle salsicce di pollo servite nelle mense di Westminster ha fatto un certo scalpore perché è uscita subito dopo quella del DNA di cavallo trovato nei ripieni dei tortellini.
Nessun danno per la salute, neanche stavolta.
Ma non è la prima volta che succede, anzi. Siamo all’ultimo episodio di una lunga saga che potremmo intitolare “Truffe halal“.
Il caso più recente lo si ritrova in Norvegia, dove le autorità preposte ai controlli hanno trovato dal 5 al 30% di carne di maiale in quella che – secondo il bollino – doveva essere carne halal.
Andando più indietro nel tempo troviamo che nel 2011 la Orion Cold Storage Co. di Cape Town importava carne di maiale (e di canguro) e la vendeva mettendoci sopra il bollino halal (vedi nel video).
Battezzarono anche una pagina di Facebook che usava uno slogan – 1 Million Against Orion Meat Fraud – che riecheggiava le “Million march” egiziane.
Ancora prima, nel 2010, ci fu il caso di una gigantesca ditta di polli francese (Doux), fornitrice di “materia prima” del famoso fast food del pollo fritto (KFC) ed esportatrice in Arabia Saudita, che non faceva polli halal – cioè macellati in maniera “islamicamente corretta” – ma li spacciava per tali.
Nella casistica degli “scandali halal” troviamo anche un cortocircuito “cultural-produttivo”.
Nel settembre 2010 il britannico Dailymail scoprì che nei maggiori supermercati del Regno veniva venduta carne proveniente dalla filiera produttiva halal come se questa fosse carne normale.
Il giornale titolava: “I grandi supermercati vendono in segreto halal: Sainsbury’s, Tesco, Waitrose, e M&S non ci dicono che quella carne è macellata ritualmente”.
La cosa divenne oggetto di campagne mediatiche, il tema del cibo “islamicamente corretto” che “invade” il mondo silenziosamente (e ci farebbe diventare musulmani a nostra insaputa!) fu ampiamente sfruttato dai numerosi nuclei di islamofobi che popolano il web e iniziano a popolare la politica europea e americana.
Qualche tempo dopo Mehdi Hasan su NewStatesman parlò di “halal hysteria”, sottolineando quanto il dibattito su questo tema nascondesse “le più profonde paure” nei confronti delle comunità musulmane.
Ok. Riavvolgiamo un attimo il nastro.
La lavorazione della carne halal presuppone un trattamento speciale (e meno economico di quello “normale”). Senza entrare nei particolari (su cui vi sono fra l’altro diverse opinioni e marcati dissensi), le differenze stanno nel modo in cui si uccide l’animale e nella benedizione che si pronuncia uccidendolo.
La cosa viene risolta in modi diversi dai produttori: c’è chi ha messo in piedi due diverse “catene produttive” – una halal e l’altra no – e c’è anche chi ha trasformato la catena produttiva normale in una catena produttiva halal per poi, convinto di non far male a nessuno, procedere a etichettare come “carne halal” solo una parte della carne prodotta (e vendendo il resto, ciò la parte non etichettata, come carne normale).
Bene, ora passiamo al “danno culturale”.
Da una parte abbiamo “i musulmani” che per i grandi produttori di cibo industriale si tramutano in “consumatori halal” e, in quanto tali, vengono sempre più sonoramente truffati.
Dall’altra abbiamo i “non musulmani” che pensano di venire “islamizzati” di nascosto da chissà quali agenzie del male, senza rendersi conto che “i musulmani” (quelli in carne e ossa, non quelli “immaginati” dai produttori di cibo industriale), sono le prime vittime di quel sistema perverso al termine del quale un pezzo di manzo halal, forse contenente DNA di maiale, ma – perché no? – anche di cavallo, finisce sugli scaffali di un supermercato senza un’etichetta che lo definisca “islamicamente corretto”.