C’è la guerra in Siria, sì. Ce ce siamo accorti. Ora che stanno per attaccare gli Stati Uniti insieme alla Gran Bretagna e alla Francia.
C’è la guerra Siria. Sì. C’è da due anni. Ma eravamo tutti sicuramente presi da qualcos’altro e non è certo una colpa. C’è la guerra in Siria e ogni giorno muoiono persone, tante, in posti diversi. A nord, a est e ovest in posti e città che ai più non dicono assolutamente nulla.
Si muore in tanti modi diversi. C’è chi rimane incastrato sotto le macerie di una casa distrutta, chi rimane infilzato nelle lamiere della macchina, chi arriva in un ospedale da campo vivo ma non può essere operato per mancanza di elettricità o sangue per le trasfusioni. Chi muore nel sonno respirando un gas letale.
C’era la guerra in Siria a Homs quando a gennaio il cugino di Burhan era uscito per andare a comprare il pane ed è stato sparato da un cecchino. C’era la guerra a Homs pure quando sei mesi dopo anche lo zio di Burhan è stato ucciso nello stesso modo.
Si muore anche nelle carceri, quando si sparisce per mesi. Ci sono due modi per morire: uno fisico, quando ti sparano e uno morale quando ti umiliano e torturano per così tanto tempo da dimenticarti chi sei e da dove vieni.
C’era la guerra in Siria quando hanno incendiato il suq di Aleppo nell’ottobre dell’anno scorso, e c’era quando hanno sganciato dei barili bomba con frammenti metallici in un parco per bambini alla periferia di Damasco.
C’è la guerra nelle strade anche dove non ci sono bombardamenti, quando in una zona “normale” di Damasco rimani in fila per tre ore ai checkpoint per fare due chilometri. Nell’attesa la gente si innervosisce dal nulla arrivano raffiche di proiettili senza capire chi spara e da dove.
C’era la guerra negli occhi di centinaia di bambini profughi che ho visto in questi due anni, nelle scuole, nei campi, negli ospedali e nelle tende immerse nel fango. C’era la guerra anche nei loro disegni con uomini distesi a terra, sangue e carri armati.
C’era la guerra nei biberon dei più piccoli quando le farmacie ei supermercati erano vuoti e le loro madri hanno iniziato a zittirli con acqua, zucchero e pane inzuppato. Così si muore, anche per denutrizione.
In questi giorni sono in molti a chiedermi cosa penso dell’iniziativa americana di attaccare la Siria. Non mi addentro nei particolari tecnici, perché di quelli sono tutti esperti, basta leggere due articoli, navigare in internet per poi decidere se parteggiare per una fazione o per l’altra.
Ed eccoci qua: di fronte ad una nuova partita tra americanisti e antiamericanisti. Ma è una partita che non voglio giocare nel “dibattito pubblico” e non ho neanche la presunzione di arbitrare come “esperta di Siria”. Hanno provato a tirarmi in ballo pacifisti, anarchico-insurrezionalisti, post-marxisti, conservatori, neocon, interventisti, e tante altre tifoserie pronte a riprendere le stesse postazioni come nella prima guerra del Golfo, come in Afghanistan, in Kosovo, e in Iraq nel 2003. Come se fosse la stessa identica, interminabile, partita giocata solo su campi diversi.
No. Mi spiace non gioco. Per me questa guerra non è una partita, è qualcosa di serio che ho vissuto dolorosamente sulla mia pelle come individuo, come amica, come donna, come figlia, come giornalista, come credente e come siriana. A tutte le persone che sinceramente mi chiedono come mi sento di fronte alla “guerra che sta per scatenarsi” rispondo amaramente che per me la guerra c’era già. Da due anni.