In un momento in cui sembra che l’unica salvezza sia affidarsi a vegliardi nonagenari, può tornar utile leggere “Ogni cosa a suo tempo”, di Michail Gorbačëv , ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, che, giunto al potere a nemmeno cinquantacinque anni, prese nelle sue mani l’arco della storia per piegarlo in direzione della democrazia, senza timore di sgretolare lo status quo.
“Ogni cosa a suo tempo” è il racconto di una vita straordinaria, una sorta di David Copperfield in salsa sovietica. Gorbačëv detta le sue parole al registratore e, bobina dopo bobina, ci porta per mano attraverso un sessantennio di storia dell’URSS, dal punto di vista di chi quella storia l’ha prima subita – come giovane contadino di Stavropol ai tempi di Stalin- e poi ne è divenuto l’artefice. Non si tratta di un memoir in senso stretto; davanti al microfono, come un nonno chiacchierone davanti al samovar, Gorbačëv si lascia andare a divagazioni, salti temporali, aneddoti e riflessioni politiche. E poi, c’è il ricordo di Raisa, l’amatissima moglie, morta di leucemia nel 1999 precipitando Gorbačëv nella disperazione. Il libro intero sembra a tratti un monumentale omaggio a Raisa, persistente nume tutelare, la cui delicata figura si staglia luminosa sullo sfondo grandioso e opprimente della Russia brezneviana.
Non sorprende che , in uno dei primi capitoli, Gorbačëv affermi che la letteratura russa sia una delle cose che più hanno influenzato il suo pensiero: le pagine in cui si rievoca l’idillio moscovita fra i giovani Michail e Raisa , per profondità e vividezza, echeggiano i grandi romanzi ottocenteschi di Turgenev e Tolstoy . Le narrazioni del Gorbačëv uomo politico, invece, fanno pensare più all’umorismo sferzante di un Bulgakov. Visti da vicino, i protagonisti dello psicodramma cremliniano perdono la loro grandezza luciferina , e la lenta putrescenza dell’Unione Sovietica – con tutto il suo contorno di epurazioni e repressioni- sembra esser l’esito scontato della classica banalità del male.
Gli uomini che Gorbačëv incontra nel Comitato Centrale del Partito, con poche eccezioni, sono intriganti piccini piccini, primedonne assetate di prestigio, burocrati corrotti più per abitudine che per malvagità. Ma più che altro, sono vecchi arnesi senili e malridotti, i cui corpi appesantiti e cervelli sclerotizzati sono metafore di un sistema vetusto e prossimo al collasso.
Breznev, Andropov e Chernenko – di cui Gorbačëv racconta con meticolosità i malanni , i gonfiori, gli enfisemi – si avvicendano macabramente al vertice di un Partito Comunista Sovietico che è sempre più ignaro dei bisogni della sua gente, e investe miliardi in testate nucleari mentre l’agricoltura va a patrasso schiacciata da una pianificazione irrazionale e para-schiavistica. E non è un caso che, quando il Partito capisce che è giunto il momento di voltare pagina sul serio, si affidi a uno che da bambino dormiva nel fienile come Gorbačëv .
E’ il racconto di questa commedia umana del potere che, insieme ai bilanci su glasnost e perestrojka – le riforme democratiche introdotte da Gorbačëv che avrebbero avviato il processo di dissoluzione dell’URSS – contribuisce a fare di “Ogni cosa a suo tempo” un libro importante. Importante per quello che ci spiega sulle grandi catastrofi politiche, che sono sempre catastrofi della pavidità, della conservazione, dell’egoismo. E sull’importanza del coraggio di cambiare e fare delle scelte, anche a costo di sacrifici dolorosi.