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Gli ultras israeliani del Beitar

“Puri per sempre” e con il vizio del fuoco

Di Azzurra Meringolo
Pubblicato il 15 Lug. 2014 alle 22:47

“Ho sempre pensato che la curva occidentale dello stadio Teddy non è meno colpevole di quella orientale. Non basta che quest’ultima inorridisca per le grida razziste che arrivano dalla prima.” Questa la metafora con cui il neo eletto presidente israeliano Reuven Rivlin ha risposto ai giornalisti che gli hanno chiesto di commentare l’uccisione, il 3 luglio scorso, del giovane palestinese Mohammed Abu Khdeir. Un gesto di vendetta per giustiziare Naftali, Eyal e Gilad, i 3 connazionali trovati morti pochi giorni prima nella campagna di Hebron.

La metafora calcistica di Rivlin diventa dopo poco realtà. Anche se i nomi degli assassini arrestati non sono ancora noti, quello che già si sa è che i tre colpevoli sono assidui frequentatori della curva che fa inorridire il presidente. I tre sono infatti degli ultras del Beitar Yerushalaim, la squadra giallo-nera della città santa. Questo gruppo, paragonato dal quotidiano israeliano Haaretz agli hooligan inglesi, si è battezzato La Familia, un nome sefardita in netta contrapposizione linguistica rispetto all’élites tradizionalmente askenazita dello stato di Israele.

Il tempismo delle parole di Rivlin, pronunciate quando ancora non erano stati arrestati gli assassini del giovane Mohammed, mostrano che l’estremismo razzista di questa squadra era cosa ben nota non solo a chi frequentava lo stadio. Un anno fa, la stampa israeliana – soprattutto quella di sinistra – si era più volte domandata se restare ad ascoltare impassibili gli slogan razzisti cantanti al Teddy non fosse un modo per diventare complici di questi ultras storicamente pronti a tutto.

L’ala estremista della tifoseria del Beitar non viene infatti dal nulla. Ha le radici piantate nella nascita dello stato ebraico. Basta pensare al nome della squadra per capire il legame con il retroterra del fascismo-razzista israeliano. Prima di diventare, nel 1936, il nome di una squadra, il Beitar è stato un movimento sionista revisionista fondato nel 1923 da Zeev Jabotinsky in contrapposizione al sionismo ufficiale accusato di sinistrismo filo-socialista eccessivamente moderato. È da questo movimento che nascerà il Likud, l’attuale partito di destra israeliano.

In Gerusalemme senza Dio, Paola Caridi spiega come la propensione verso destra del Beitar Yerushalaim e dei suoi tifosi non si è mai persa. Molti giocatori sono stati membri del gruppo armato clandestino dell’Irgun e numerosi tifosi fedeli elettori prima dell’Herut, lo storico partito di destra che ha poi lasciato spazio al Likud. La passione politica sportiva si è da sempre fusa con l’ideologia politica.

Per capirlo basta guardare gli album fotografici che ritraggono i vip che negli ultimi decenni si sono accomodati in tribuna. Dall’ex falco Ariel Sharon all’ex premier e sindaco di Gerusalemme Ehud Olmert. Al Teddy, Olmert – ora condannato per corruzione – sedeva nel suo palco personale. Fino allo scorso anno faceva il possibile per non perdere neanche una partita. Quando il volume dei cori razzisti della tifoseria è diventata troppo alto per non essere imbarazzante, ha ritenuto più opportuno lasciare l’abbonamento ad altri.

Se dalle foto della tribuna si passano in rassegna quelle dei proprietari del club, si nota che il Beitar è passato nelle mani di uomini che condividono un fortissimo attaccamento a ogni singolo metro quadro di Gerusalemme. Il proprietario attuale è Arcadi Gaydamak, un discusso tycoon russo che ha ereditato il testimone da una serie di compratori stranieri per i quali investire nell’immobiliare della città santa è un dovere religioso e politico.

Al Teddy, oltre che per il campionato si gioca quindi per la proprietà di Gerusalemme. Ma c’è di più. Ci si sfida anche sulla composizione etnica che si immagina per il futuro di questa città, rivendicata come capitale da due popoli in guerra da decenni. Gli ultras di La Familia hanno le idee chiare. Per palestinesi, arabi e musulmani non c’è posto né in campo né per strada. Leggendo le formazioni in campo nelle diverse stagioni, non si trova neanche un nome palestinese. Solo un cognome musulmano, quello di un nigeriano che è stato costretto ad andarsene in fretta per gli attacchi subiti durante allenamenti e partite.

 

Questo artico termina su ResetDoc, dove è stato pubblicato.

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