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Imparare la fratellanza

In Kenya, come un po' ovunque del resto, è indispensabile aprirsi all'incontro con gli altri per costurire una società vivibile

Di Padre Kizito
Pubblicato il 13 Apr. 2015 alle 03:27

Oggi a Tone la Maji è arrivato Piotr. Tone la Maji è una casa che accoglie i bambini di strada situata nella periferia di Nairobi, in Kenya.

Piotr non è un ragazzo keniota con un nome polacco, anche se non sarebbe certo la prima volta.

In strada ho trovato bambini con i nomi più improbabili, quali Reagan, Clinton, Amsterdam, Limited e perfino Ivanovich.

Piotr è un ragazzo di vent’anni autenticamente polacco che appena terminata la scuola superiore ha chiesto di fare un’esperienza di tre mesi in Africa prima di entrare in seminario.

L’ho riconosciuto subito all’aeroporto: un viso aperto e un accenno di barba bionda. Siamo arrivati a casa poco prima di cena. I bambini lo hanno assaltato eccitati. Tutti volevano fare qualcosa per lui, portargli il bagaglio, indicargli la stanza, fargli assaggiare i meloni del nostro orto.

Piotr all’inizio si scherniva. Poi si è lasciato andare all’affettuoso calore dei nuovi amici, e quando è arrivata la cena – polenta, cavolo e lenticchie – era già parte del mondo di Tone la Maji. Ha mangiato di gusto, solo un po’ impedito da Yusuf, il piccolo musulmano che è con noi dagli inizi di febbraio, che era sempre aggrappato al suo braccio.

I giovani non hanno paura degli altri. Capiscono istintivamente che si cresce e si diventa umani solo incontrando gli altri. L’appartenenza sociale, le differenze religiose, il colore della pelle e le difficoltà della lingua sono superate di slancio appena si guardano negli occhi. Solo le esperienze negative – il rifiuto, l’abbandono e il tradimento – possono incrinare o addirittura negare questo bisogno di socialità, o di comunione con gli altri, come direbbe la spiritualità cristiana.

Piotr mi mostra il selfie che ha fatto con i nuovi amici, con Yusuf sempre aggrappato al braccio, e mi dice “È straordinario, ci siamo già riconosciuti come fratelli”. Penso che quest’immagine potrebbe illuderci che la fraternità sia a portata di mano, che la prossima generazione la realizzerà.

No. Purtroppo è difficile credere che quel seminarista polacco abbracciato dal bimbo musulmano keniota possa essere un’icona credibile del nostro immediato futuro. C’è ancora molto da fare.

Una convivenza che non sia solo reciproca sopportazione ma sia intimamente e sinceramente rispettosa degli altri nasce da un lavoro faticoso a livello personale e sociale. Incontrare gli altri, invece di scontrarsi con loro, tenere sotto controllo i mostri che abbiamo dentro, costruire fratellanza e solidarietà, non è facile e spontaneo.

Per me cristiano significa tornare alla semplicità del Vangelo, al Gesù che si presenta ai discepoli con le braccia aperte e pronte all’accoglienza, pur sapendo che le stesse braccia aperte sono già state inchiodate alla croce, e che potrebbe succedere ancora.

Significa restare davvero giovani dentro, la giovinezza dell’essere pronti ogni giorno al rischio di incontri nuovi, non l’ipocrita giovinezza dei capelli tinti, del volto rifatto, del sorriso senza anima. Significa coscientemente, metodicamente giocarmi la vita con una disciplina interiore che mi aiuta a tenere lo sguardo verso Colui che è l’incontro per eccellenza, giorno dopo giorno, fino all’ultimo.

Da adulti che hanno già sperimentato la durezza della realtà e magari sono diventati un po cinici per la continua assunzione dei veleni della discriminazione e del razzismo che sono diventati parte della nostra cultura,in Kenya come in Europa, sappiamo che l’incontro con gli altri solo raramente nasce dalla improvvisazione e dalla spontaneità.

Incontrare chi puzza di povertà e di alcol, chi straparla sotto l’effetto della droga, chi ti guarda con odio perché non rientri nei suoi chiusi schemi mentali, o, peggio ancora, l’ipocrita e il perbenista che si crede al centro del mondo, il politico che per mestiere e per voti è semina rancore e odio, è un esercizio che si non si può fare senza allenamento e forza interiore. Insomma, il “Padre Nostro” recitato il mattino deve essere veramente un programma di vita.

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