Arriva il momento di riprendere carta e penna, e non perché ne abbia voglia, no, dentro di me ho provato a rimandare sempre, per rimuovere, per non ricordare, personalmente. Il fatto, il rapimento, è raccontato in un libro, e quando ne parlo, parlo del libro e non di me.
Mi sento inadeguata nei confronti di chi è investito ancora da una sofferenza viva che per me è solo un lontano ricordo. Si chiama senso di colpa del sopravvissuto, così lo definiscono gli psicologici, colpisce anche chi fa un incidente stradale o è vittima di un terremoto.
Insomma, tu sei vivo e vegeto, tornato alla tua vita, fai progetti per il futuro, vai al cinema e compri un nuovo paio di scarpe. Mangi un gelato all’aria aperta, libera, che ha un odore diverso, un odore che forse sentirai per sempre. Mentre loro, i rapiti in Siria, sono dentro un buco nero.
E James Foley alla fine non ce l’ha fatta perché qualcuno, qualcuno con in mente violenza e in bocca una lingua che parla inglese con accento britannico, ha deciso di togliergli la vita.
E allora ecco l’angoscia che prevale, ecco che arrivano i messaggi di chi ha paura che la stessa sorte tocchi anche ai propri cari. Scrivo queste poche righe per dirvi che no, non è detto che accadrà anche ai vostri cari, perché non c’è una logica dietro la loro ideologia. La brutalità è sporadica e non necessariamente adoperata con metodo.
Non sono tutti tagliatori di teste. Ma la decapitazione è una pratica che esiste, non voglio far finta che non esista. La decapitazione significa: ti uccido come un animale, perché è così che ti considero. Provo a tradurre il loro punto di vista perché ho avuto la sfortuna di parlarci, e di ricevere minacce di morte. Nel mio caso ero sicura che come donna non mi avrebbero decapitato, pensavo a una banale fucilazione.
Così la testa pensa, pensa e prega, spera. Ti disperi un po’, poi smetti di disperarti, ti rimetti nelle mani di un destino più grande di te, più grande del tuo aguzzino, della guerra in Siria, e di tutte le atrocità che compiono gli uomini. Chissà cosa c’è dopo?
Se sei religioso, nel senso tradizionale del termine, pensi a un paradiso in cui qualcuno si prenderà cura di te, ti coccoli in questa idea, e come per magia l’angoscia sparisce. Ti prepari al tuo momento, ti dispiace per i tuoi cari che si dispereranno per un po’, ma poi ti dici, convincendo te stesso: se sono intelligenti capiranno.
Capiranno che su questa terra siamo di passaggio, e uno può morire per mano di un imbecille che dice di appartenere a un certo gruppo con una certa sigla (la storia è piena di gruppi terroristici) o per un incidente stradale. E allora? Qual è il problema.
Prepariamoci a questo viaggio che tanto prima o poi tocca a tutti. Così ti senti sereno, prepari le valige (mentali) e dici: sai cosa c’è di nuovo signor jihadista macellaio con la sciabola e il fucile? Che se tu mi ammazzi, io me ne vado, ma tu resti qui. E peggio per te! Perché la tua vita fa abbastanza schifo e quel Dio che invochi tanto, se davvero esiste, un giorno ti giudicherà anche per questo, per avermi ucciso.
Se invece non credi che ci sia qualcosa dopo la vita, ma credi nei profondi principi dell’illuminismo e nel materialismo democriteo, pensi più o meno quello che pensa un credente ma senza post. “Se mi uccidi io me ne vado, poni fine alle mie sofferenze, perché anche sperare invano che mi liberi è una forma di sofferenza. Ma tu signor tagliagole, tu, resti a vivere questa vita incivile e miserabile”.
E le parti si invertono, così vedi il tuo esecutore come la vera vittima, vittima della vita orrenda che si è scelto. Tu sei l’oggetto, il corpo su cui esercitare il potere, ma per quanto tempo? Tu starai con il tuo aguzzino per poco tempo, lui starà con se stesso e il marcio che ha dentro per sempre. Quando pensi che stai per morire ti senti invincibile, odi il tuo potenziale esecutore, lo temi, ma alla fine, è incredibile da dire, ti fa pena.
Non sono tutti così ovviamente, come ho detto e ribadisco, non tutti adoperano la violenza in modo sistematico. E la maggior parte degli ostaggi in Siria, ad oggi, sono tornati a casa. Ma James, no, forse era il suo destino. I genitori hanno scritto che mai come oggi sono orgogliosi di lui. Io non lo conoscevo personalmente e mi ritrovo a condividere molti pensieri con colleghi che avevano condiviso tante avventure con lui, in Libia e in Siria.
A chi soffre ora per la sua scomparsa, mando un abbraccio forte pieno di comprensione. Quanto a James, invece, mi sento solo di augurare di fare buon viaggio.