Kiev come Helsinki fino a 25 anni fa. E’ l’unica soluzione che la solerzia europea (ampiamente prevedibile) e quella statunitense (ampiamente deprecabile) possono trovare per rimediare al pasticcio che hanno combinato nella vicenda ucraina. A maggior ragione dopo il referendum di Crimea.
Nello scacchiere geopolitico mondiale vincono le leadership. E tutto si può dire tranne che Putin non sia quel leader capace di rappresentare le istanze ortodosse, slave ed imperiali della Federazione Russa. Una leadership quasi extrapolitica, di tipo etico. Senz’altro assente sul fronte occidentale.
Che Kiev non dovesse entrare assolutamente nella Nato era chiaro sin dal 2008, quando la diarchia moscovita Medvedev-Putin frenò le velleità autonomistiche georgiane sull’altare dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. Ma coi vari tasselli che in questi mesi il Cremlino sta accumulando il (vedi incontro del generale Al-Sissi con capo dello stato russo) il rischio è che l’eccessivo istrionismo neo-con capace di portare nell’Alleanza Atlantica mezza Europa dell’est Albania compresa, venga sostituito da una timidezza in grado di far terra bruciata.
Nelle relazioni bilaterali con la Russia (bisogna capire per quale motivazione di tipo psicologico) si considerano solo i fattori di convenienza nostri e mai quelli loro. Non si considera che il mercato è qualcosa di interdipendente, che il gas si compra ma si vende anche. Da qui il sentirsi autorizzati a fare tutto, ad atteggiarsi come padroni del mondo.
Se Obama, Kerry e tutta la compagnia non vogliono fare l’ennesima figura barbina si pongano l’obiettivo politico di salvare il salvabile: il conflitto ucraino ha assunto sin da subito connotati da guerra civile. L’atteggiamento russo nei confronti della Crimea e delle province orientali (Donetsk e Kharkiv) è qualcosa da condannare ma al tempo stesso spiegabile.
Se a Simferopoli la maggioranza della popolazione è russa, a Donetsk “si sente russa”. E non è il caso di portare avanti una battaglia da riformisti senza popolo.
L’amministrazione Usa si leghi all’appiglio lanciato nella tarda serata di domenica da Serghei Lavrov teso preservare l’integrità territoriale dell’Ucraina (complesso mosaico multietnico post-imperiale) in cambio di riforme costituzionali. Si punti ad inserire all’interno del nuovo testo una norma analoga all’articolo 1 comma 2 della costituzione austriaca in merito alla “neutralità permanente” del paese. Si porti avanti la proposta del professor Henry Kissinger su una “finlandizzazione” dell’Ucraina: Kiev potrebbe adottare, sulla falsariga del precedente della Guerra Fredda, un sistema politico interno simil-occidentale senza compromettere eccessivamente la propria dipendenza energetica ed economica con la Russa.
Questa risulta essere l’unica strada per non perdersi anche Kiev: renderla una zona franca. Perché la diplomazia occidentale con la sua omertà e la sua sfrontata ignavia ha fatto di tutto per disperdere lo spirito genuinamente filo-occidentale di gran parte di Piazza Majdan.