Nel teatro dell’assurdo della Corea del Nord, ultima isterica ridotta del totalitarismo rosso, a vincere sono i bugiardi più bravi. Quando a regnare è la menzogna, mentire è un obbligo, ma bisogna mentire con stile. Avere una storia che funzioni . E paradossalmente la bugia, trasfigurata in narrazione, diviene anche l’ultimo rifugio per chi vuole sfuggire alle spire della capricciosa tirannia di Pyongyang e del suo Caro Leader.
Il romanzo Pulitzer di Adam Johnson, così, supera i confini della letteratura di denuncia e diventa una riflessione sulla doppia natura della fiction – mortifera quando coincide con l’assordante propaganda del regime , e salvifica quando lascia intravedere agli schiavi di una realtà opprimente qualche brandello di felicità.
La Corea de “Il Signore degli Orfani” è quella, recente, del ridanciano despota Kim Jong-Il. E’ sotto la sua egida che il giovane Pak Jun-Do viene inviato in missione contro il resto del mondo – prima come incursore, poi come rapitore, addetto radio e agente diplomatico. In un mondo dove la cifra prevalente è la tenebra, si snoda l’avventura di questo tenero eroe per caso, che alterna pagine strazianti a passaggi farseschi da commedia degli errori. Il finale, che strizza ironicamente l’occhio al re dei cliché americani “Casablanca”, è un trattatello sull’amore e l’altruismo.
Adam Johnson ha passato anni a documentarsi sulla Corea del Nord, nel corso dei quali ha visitato varie volte l’autocrazia asiatica e ha compiuto decine di interviste (memorabile quella allo chef di Kim Jong Il, che a tratti ricorda l’ingenuità del protagonista).
Il risultato è che la strana favola dell’orfano Pak Jun-Do prende vita in un mondo nitido, in cui ogni dettaglio pare fluire dalla vera voce di un testimone oculare. In un cortocircuito semantico, la finzione letteraria diviene così strumento catartico di autenticità, e “Il Signore degli Orfani” riesce a offrire un vivido spaccato della miserabile fortezza dei Kim.
a cura di Gian Maria Volpicelli
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