Il taxi arriva alle 7:00. Gli occhi si aprono, di nuovo, dopo sole quattro ore di sonno. «Scusa, Azeem, ti avevo avvertito ieri sera di arrivare alle 9 e non più alle 7», dice la mia amica Ruth all’autista che ci aspetta nell’hall dell’albergo di Amman dove dormiamo.
Dobbiamo andare al confine, passare il ponte di Allenby per poi dirigerci verso Jerusalem, dove vivo da pochi mesi e dove la mia amica vorrebbe tanto passare il week end. Per scrupolo Ruth controlla il numero del tassisita che aveva chiamato la notte prima per avvertirlo del cambio di programma. Il numero, ovviamente, non coincide.
Siamo mortificate, ha parlato con un’altra persona che però invece di dire che non era Azeem ha annuito tutto il tempo, un po’ per gentilezza, forse, e un po’ per non frustrare il suo entusiastico tentativo di parlare arabo.
Scendiamo con i segni del cuscino stampati in faccia. Azeem ci accoglie con estrema gentilezza, nonostante il nostro mostruoso ritardo. La strada da Amman al confine è libera, è sabato, regna la calma totale sul deserto di montagne rocciose. Arrivate al ponte King Hussein (Allenby per gli israeliani) ci dirigiamo verso l’entrata Vip, vogliamo evitare file pazzesche e controlli certosini sul punto di frontiera dove ogni giorno entrano centinaia di palestinesi e giordani nei Territori palestinesi.
Il passaggio Vip costa 110 dollari. Dopo un veloce scambio di sguardi, ci dirigiamo verso la fila “normale” con più di 200 persone. La prospettiva è un po’ sconfortante. Ruth cammina sensualmente verso un giovane soldato israeliano dicendogli che siamo due giornaliste, con passaporti europei. Il soldato subisce il fascino della bionda e ci fa saltare la fila. Mentre approfittiamo della corsia preferenziale riflettiamo ipocritamente sul concetto uguaglianza.
Arriviamo al controllo passaporti, Ruth passa senza nessun problema. “Dove sei nata?”, mi chiede invece la soldatessa nel gabbiotto. “Ad Aleppo”, rispondo. “Dov’è Aleppo?” chiede di nuovo. In Toscana! Vorrei tanto dire, perché sogno una doccia e un piatto di pasta. Si trova esattamente a metà strada tra Firenze e Arezzo. Ma non è il caso di fare gli spiritosi.
“In Siria”, rispondo poi sorridendo per rasserenarla che non porto con me del materiale esplosivo. Sul mio passaporto attacca un adesivo diverso da quello di Ruth. Mi preparo psicologicamente a quello che mi aspetta. Ci incamminiamo verso il secondo controllo.
Il soldato prende il mio passaporto e inizia a fare un po’ domande sulla mia famiglia, risalendo al padre mio nonno che, suppongo, si chiami come mio padre. Dopo 50 sorrisi e tanta cordialità, provo ad abbreviare i tempi tirando fuori la press-card rilasciata dal governo israeliano, qualcosa che dovrebbe riportarmi alla condizione di “Vip”.
Ma neanche per sogno! “Devi compilare questo e aspettare in quell’area d’attesa”, afferma infilando un foglio sotto il vetro e ricambiando altri 50 sorrisi come a voler dire: “Non abbindoli neanche con gli occhi da Bambi”. Infagotto la mia rassegnazione e apro il Mac, c’è un’ottima connessione wifi. Ci sediamo. “È libero questo posto?” chiede un ragazzo giovane e muscoloso prima di sedersi a fianco a noi. Rispondiamo affermativamente.
Ruth risponde al telefono. È il suo capo redattore, scherzando gli racconta della nostra mattinata da incubo: “Ci stanno trattenendo qui al confine perché siamo delle terroriste. Ahahaha. Soprattutto la mia amica, è nata ad Aleppo, non lo sai che tutti i siriani sono terroristi? Ahahahhah”. D’istinto vorrei darle una gomitata, ma per non fare la parte della paranoica, resto immobile. “Favorisca il passaporto” tuona con aria serissima il ragazzo muscoloso seduto affianco a Ruth. Lei glielo passa insieme al suo tesserino stampa. L’uomo sparisce.
Iniziamo a ridere istericamente! Finora avevo pensato che se mi avessero arrestato lei mi avrebbe tirato fuori, ma per come si stanno mettendo le cose forse arresteranno anche lei! Passano le ore e i piedi iniziano a gelarsi. Ad attendere insieme a noi c’è una donna in niqab, una famiglia di pakistani, una di indonesiani e qualche decina di palestinesi. In fondo alla sala però scorgo anche un americano di 60 anni. Sono sollevata e smetto di sentirmi vittima di razzismo.
È solo per ragioni di sicurezza, mi convinco.
Inganniamo l’attesa scherzando. Dico a Ruth che se vuole smettere di essere mia amica lo capirei. Due giorni fa nel media office del governo giordano, i nostri documenti per entrare nel campo profughi di Zaatari sono stati rallentati perché sospettavano che io fossi una spia israeliana. Non vado bene proprio a nessuno!
“Quello che otterresti in 5 minuti con me lo ottieni in 5 ore!”. Ridiamo di nuovo. Il ragazzo muscoloso torna e le consegna il passaporto. Dopo due ore e mezzo, abbiamo esaurito le energie per scherzare. Mi affaccio timidamente all’ufficio della polizia per chiedere notizie.
“The Italian passpo(v)rt?” dice un poliziotto mentre mangia bruscolini, con una pronuncia inconfondibile. “Yes”, rispondo sempre allargando sorrisi, come se non stessi sognando una doccia, un piatto di spaghetti e il mio letto. “Is not (v)ready”, afferma serafico mentre sputacchia semini. Dopo un po’ mi si avvicina una donna in borghese. Le dico che aspetto da tre ore che ho una press-card e gliela mostro. Lei accenna una smorfia di dispiacere. “Solo due minuti e la chiamiamo” si scusa con convinzione. Mi risiedo.
Dopo due minuti esatti arriva un uomo con il mio “passpo(v)rt”. E mi dice: “So(v)ry. You we(v)re not supposed to wait. We apologize”.