Disarmo nucleare, l’Italia non ratifica il trattato
Il 7 luglio del 2017 l’Onu adottava il Trattato per la proibizione delle armi nucleari (TPAN), che stigmatizza le armi nucleari, ne vieta il possesso, l’uso e la minaccia di farne uso.
Per entrare in vigore, il Trattato deve essere ratificato da 50 Stati. Ma a che punto siamo in questo processo? Perché l’Italia non ha firmato né tanto meno ratificato il Trattato per la proibizione delle armi nucleari?
Per fare il punto, TPI ha contattato alcune associazioni pacifiste che da anni si battono per la denuclearizzazione.
Trattato per la proibizione delle armi nucleari, a che punto siamo
A poco più di due anni dall’adozione da parte delle Nazioni Unite, il TPAN conta 23 ratifiche e a 70 firme di impegno per la ratifica. Tra queste non c’è l’Italia, né nessun altro paese della Nato.
La Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (ICAN), coalizione internazionale di Ong insignita del Nobel per la Pace 2017, ha comunicato che altri 24 Stati sono vicini alle ratifiche, che dovrebbero presentare congiuntamente all’Onu in una cerimonia in programma a settembre.
In tal modo, si arriverebbe a 47 ratifiche sulle 50 necessarie. Realisticamente si ipotizza quindi che nel 2020 il Trattato dovrebbe entrare in vigore.
“Il dato politico fondamentale, dal mio punto di vista, è se queste 50 ratifiche si avranno prima o dopo la sessione di revisione periodica del Trattato di non proliferazione nucleare, che si terrà a maggio 2020”, spiega a TPI Alfonso Navarra, portavoce dell’Assocazione Disarmisti Esigenti.
“La dirigenza internazionale di ICAN non si pone ufficialmente questo problema, per noi invece è decisivo rispetto alla speranza che un nuovo ordine giuridico – quello del trattato di proibizione – vada a condizionare effettivamente il vecchio ordine giuridico, cioé quello del trattato di non proliferazione”, sostiene Navarra.
Il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), approvato dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1968 ed entrato in vigore nel 1970, prevede che gli Stati nucleari si impegnino a non cedere a terzi materiale fissile, cioè in grado di sviluppare una reazione a catena di fissione nucleare, e tecnologia nucleare.
All’articolo 6 questo trattato prevede che gli Stati si impegnino a “concludere in buona fede trattative su misure efficaci per una prossima cessazione della corsa agli armamenti nucleari e per il disarmo nucleare”, tuttavia finora la norma è rimasta lettera morta.
Anche per questo è nata la necessità di fare ulteriore pressione sugli Stati attraverso il Trattato per la proibizione delle armi nucleari.
“La tendenza è quella, da parte del vecchio ordine – sostenuto dalle potenze nucleari, Stati Uniti in testa – di disconoscere la legittimità giuridica del nuovo trattato, sostengono che non conti nulla”, spiega Navarra. “Per fare in modo che questa tesi sia smontata, occorre che ci sia una carta forte da giocare, che è appunto l’entrata in vigore”.
Suprema garanzia di sicurezza o roulette russa?
La mancata ratifica dell’Italia al TPAN è dovuta soprattutto al suo legame con la Nato, che ha la stessa posizione degli Stati Uniti sul disarmo nucleare, come spiega a TPI Antonia Baraldi Sani, ex presidente di WILPF Italia (Women’s International League for Peace and Freedom o Lega Internazionale Donne per la Pace e la Libertà).
La posizione della Nato – a cui l’Italia si è adeguata – è che il TPAN non sia necessario e che occorrano dei processi che tengano in conto la componente sicurezza a livello globale.
Per l’alleanza atlantica, infatti, le armi nucleari giocano il ruolo di “suprema garanzia di sicurezza”: una sicurezza che nasce dagli equilibri di potenza. Sconvolgere questi equilibri, per quanto con dichiarate buone intenzioni potrebbe portare a ottenere il risultato contrario.
Qual è l’argomentazione dei pacifisti rispetto a questa posizione?
“Siamo fortunati che questi equilibri non ci abbiano portato alla fine del mondo”, dice Alfonso Navarra, “perché la guerra nucleare può scoppiare persino per caso o per errore. Quindi questi equilibri non determinano sicurezza, ma una minaccia mortale per l’umanità”.
“Giochiamo una specie di roulette russa e non possiamo sempre sperare nella benevolenza della provvidenza”, aggiunge. “Greta Thunberg (l’attivista svedese per il clima, ndr) dice che la nostra casa è in fiamme riferendosi all’emergenza climatica. Bene, l’emergenza nucleare è come se in un appartamento di un condominio si fosse accumulato del gas. Una qualsiasi scintilla può fare esplodere l’edificio”.
“Possiamo saltare in aria da un momento all’altro, per qualsiasi motivo”, continua Navarra. “Diverse volte nella storia si sono verificati dei casi in cui la guerra nucleare è stata evitata all’ultimo minuto. Ricordo il caso del colonnello russo Stanislav Petrov, che il 26 settembre 1983 ha evitato una guerra nucleare. Per questo quella data è diventata la giornata Onu contro le Armi nucleari”.
In Italia: dalla mozione del Movimento Cinque Stelle al legame con la Nato
C’è anche un’altra ragione, però, per cui l’Italia non ratifica il TPAN. Il nostro paese ospita infatti circa 70 bombe nucleari statunitensi, stoccate nelle basi di Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone), la cui presenza rappresenta, come fa notare WILPF Italia, una “grave violazione” dell’art 3 del TNP, il Trattato di Non proliferazione Nucleare firmato dall’Italia nel 1970, che vieta a un paese che non possiede armi nucleari di ospitare bombe nucleari straniere.
“Pur non essendo un paese nucleare e avendo dato con due referendum un ‘no’ al nucleare civile, ci troviamo in pratica nel nostro paese di fatto il nucleare militare, ospitando queste bombe nucleari Usa”, spiega a TPI Giovanna Pagani, presidente onoraria di WILPF.
Eppure durante la scorsa legislatura diversi parlamentari, soprattutto appartenenti al Pd e al Movimento Cinque Stelle, erano favorevoli alla ratifica.
Dei 243 parlamentari italiani che nel 2017 hanno firmato l’”Impegno Ican” a promuovere la firma e la ratifica da parte del governo italiano del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, 89 appartenevano al Movimento 5 Stelle. Tra loro c’erano l’attuale vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio e l’attuale presidente della Camera Roberto Fico.
Quell’impegno, tuttavia, non è stato mantenuto neanche adesso che il Movimento Cinque Stelle è nella coalizione di governo.
“Le mozioni presentate alla Camera e al Senato nel 2017, con la nostra consulenza, avevano come primi firmatari i parlamentari del Movimento 5 Stelle. Anche Luigi Di Maio era favorevole”, ricorda Alfonso Navarra. In particolare, la mozione presentata al Senato aveva come primo firmatario Roberto Cotti, senatore M5S non rieletto nel 2018; prima firmataria della mozione alla Camera era invece Tatiana Basilio, neanche lei rieletta.
“Molti dei parlamentari che avevano firmato garantendo il loro impegno per il Trattato di proibizione erano dei 5Stelle, e di questi gran parte è stata rieletta. Sarebbe interessante capire perché hanno cambiato idea”, si chiede Navarra.
“La politica oggi non parla di queste questioni”, aggiunge Giovanna Pagani. “Viviamo questa grandissima contraddizione, decuplicata anche dal fatto che pure il parlamento europeo aveva votato affinché i paesi aderenti sostenessero il processo diplomatico che ha portato al trattato, ma anche l’Europa ha un grande limite: dei 27 paesi membri ben 22 sono paesi Nato, quindi i loro ministri di sicuro non faranno un’opera di sostegno al trattato”.
Un pericolo autentico
“Il problema non è solo il pezzo di carta, il Trattato di proibizione”, riconosce Navarra, “Il problema è se questo pezzo di carta servirà ad arrivare a un disarmo nucleare effettivo, a eliminare effettivamente le armi. Per ottenere questo occorre tutta una serie di processi, negoziati e situazioni a livello internazionale”.
I paesi nucleari attualmente sono 9: Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord. La maggioranza delle armi tuttavia appartiene a due potenze: Stati Uniti e Russia.
“Bisogna convincerle e premere perché siano loro a toglierle, affinché si arrivi a un disarmo nucleare effettivo”, dice Navarra. “Occorre pressione internazionale, la chiarezza nell’ordine giuridico, aprire anche delle contraddizioni interne nelle potenze nucleari”.
Il fronte, d’altra parte, è tutt’altro che compatto, come ricorda Giovanna Pagani: “Il 23 dicembre 2016, durante la votazione Onu per stilare il trattato, dei 9 paesi nucleari uno solo votò a favore”, dice l’attivista.
“Il dato ti sorprenderà: è stata la Corea del Nord. Qui si spiega anche come subito dopo gli Stati Uniti abbiano iniziato una forte politica di aggressione e provocazione”.
Altri paesi nucleari, Cina, India e Pakistan, si sono astenuti, facendo abbassare il tetto dei voti per l’approvazione della decisione. “Tra i paesi europei che, come l’Italia, ospitano bombe nucleari Usa, l’Olanda che partecipò al processo diplomatico. Poi votarono contro, ma almeno parteciparono”, ricorda Pagani.
“La grande idea sarebbe quella di istituire un gruppo di lavoro permanente costituito da esperti di questi 9 paesi nucleari, e scienziati, che riescano a fare un’opera di convincimento dell’urgenza di questa denuclearizzazione”, sostiene. “Il pericolo è autentico. Ci sono circa 15mila testate nucleari nel mondo, ma il rischio maggiore è determinato dalle 2mila testate che nel giro di 10-15 minuti possono essere attivate”.
L’intreccio tra minaccia nucleare e minaccia climatica
I pacifisti italiani sottolineano che emergenza climatica ed emergenza nucleare sono due temi legati tra loro.
“Il primo settore produttore di CO2 è proprio il settore industriale militare”, sottolinea Giovanna Pagani. “Poi c’è la contaminazione radiologica indotta dal militare nucleare. I superstiti di Hiroshima e Nagasaki sono i primi a denunciare gli effetti della contaminazione nucleare, ma insieme a loro ci sono anche i superstiti degli oltre 2mila test nucleari effettuati dal ’45 ad oggi. Ci sono testimonianze umane del danno, che non è solo per gli esseri umani ma anche per l’ambiente, perché la contaminazione radiologica dura nello spazio e nel tempo”.
“A questo si aggiunge il grande pericolo dell’utilizzo dell’atmosfera a fini bellici, denunciato dalla scienziata Rosalie Bertell, il cui ultimo libro si intitola Pianeta Terra. L’ultima arma di guerra. Questo è un ulteriore argomento di cui nessuno parla”.
Le associazioni pacifiste concordano sulla necessità di una mobilitazione popolare che scuota le coscienze e attiri l’attenzione sul nucleare.
“Noi come WILPF abbiamo appena concluso il primo anno di un progetto che si chiama Pace femminista in azione, giustizia climatica, sicurezza e salute che vuole mettere in luce come la militarizzazione della politica e il problema del nucleare abbiano un forte impatto sul cambiamento climatico. Se venisse compreso questo anche il movimento ambientalista verrebbe portato sull’altro fronte, sinergico con il primo, dell’impegno anti-nuclearista”, dice Pagani.
“Credo che una grande opportunità ce la darà la seconda marcia mondiale per la pace e la non violenza, che parte il 2 ottobre 2019 da Madrid e si conclude l’8 marzo 2020, sempre a Madrid. La marcia si pone come obiettivo non solo la denuclearizzazione, ma anche giustizia climatica, sociale la non-discriminazione e la rifondazione delle Nazioni Unite, perché diventino davvero garanti per la pace”.
La “pace femminista” e il ruolo delle donne nella lotta per il disarmo nucleare
Nella lotta per la denuclearizzazione le donne, attraverso la WILPF, hanno avuto e hanno tuttora un ruolo molto rilevante.
“Il ruolo della nostra associazione è straordinario dalla sua nascita, nel 1915”, spiega Giovanna Pagani. “Nasciamo per chiedere il diritto di voto come diritto di voto alla pace e, come primo punto della politica internazionale ci poniamo l’obiettivo del disarmo”.
“Da allora la WILPF si è sempre data da fare in modo molto attivo nelle varie epoche storiche per arrivare a trattati di interdizione di armi di distruzione di massa, sia attraverso la diplomazia, sia con raccolte di firme”.
All’ultimo Congresso internazionale, che si è tenuto ad Accra ad agosto 2018, WILPF ha rilanciato il concetto di “pace femminista”, un concetto molto inclusivo che, partendo dal riconoscimento della centralità del ruolo della donna quale strategico agente di cambiamento, è aperto a stringere alleanze con tutti i soggetti che desiderano costruire un mondo libero dalla violenza e dalle guerre e in armonia con la natura.
Partendo dalla consapevolezza che è la logica patriarcale di dominio a produrre la violenza in tutte le sue plurime articolazioni, la pace femminista mira a trasformare con metodi nonviolenti ogni relazione di potere per favorire il dialogo e la cooperazione tra i popoli, per realizzare una sicurezza smilitarizzata e per garantire la giustizia sociale, la giustizia climatica e naturalmente la giustizia di genere.
All’interno di questo grande processo la WILPF ha lanciato la campagna: “Verso un Consiglio di Sicurezza Femminista” con una Agenda precisa per accelerare il processo di inclusione delle donne e il riconoscimento della rilevanza delle donne e delle questioni di genere ai fini della pace e della sicurezza, come riconosciuto dalla Risoluzione 1325 del 2000.
“Auspichiamo la presenza delle donne in politica, ma con un nuovo modo di fare politica, contro il patriarcato e tutta la logica militarista che ne consegue”, spiega Giovanna Pagani, “Siamo a favore di una politica femminile che crei benessere per tutti”.
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