Amina Sawok è una giovane studentessa nigeriana. Lo scorso 14 aprile si trovava nel dormitorio del collegio femminile di Chibok, nello stato di Borno, insieme a oltre 200 compagne di studi quando un gruppo di uomini in divisa militare è entrato nella struttura.
«Ci hanno portato nella sala da pranzo» ha raccontato Amina alla testata nigeriana The Punch «da lì, siamo state spostate su dei veicoli in attesa, diretti verso la città di Damboa. È accaduto tutto intorno alle undici di sera»
La ragazza ricorda come quegli uomini, spacciatisi per membri dell’esercito con il compito di metterle al sicuro, hanno prima sparato alla guardia della scuola, poi dato alle fiamme l’edificio. Amina, insieme ad altre quaranta ragazze, ha trovato il giusto mix di coraggio e follia per gettarsi dal veicolo in corsa, riuscendo a scappare. Tuttavia, non si considera fortunata. «Non posso festeggiare la mia fuga perché alcune mie amiche e compagne di classe sono ancora nelle mani degli insorti e non so cosa stanno affrontando», dice.
L’episodio è giunto alla ribalta delle cronache internazionali, con un ritardo di quasi un mese, grazie alla campagna #BringBackOurGirls, sposata da importanti leader, come Michelle e Barack Obama, David Cameron e Michelle Bachelet, oltre che da influenti personalità del mondo del cinema e dello spettacolo. E dalla società civile di tutto il mondo.
Responsabile del rapimento delle studentesse è il gruppo fondamentalista islamico Boko Haram, che ha rivendicato il suo coinvolgimento attraverso un videomessaggio. Fondato nel 2002 e guidato fino al 2009 da Ustaz Mohammed Yusuf, oggi presumibilmente affidato ad una leadership collegiale, Boko Haram non è nuovo ad azioni terroristiche di questo genere. Già nel 2011, infatti, la setta islamista si era resa protagonista di attentati e violenze contro la comunità cristiana presente nella parte settentrionale del Paese.
La campagna #BringBackOurGirls ha centrato l’attenzione internazionale sulla Nigeria e soprattutto sul precario equilibrio sul quale si regge il governo presieduto da Goodluck Jonathan.
Lo Stato più popoloso del continente africano, infatti, dopo l’indipendenza riconosciutagli nel 1961, ha conosciuto numerosi golpe che hanno portato a un susseguirsi di governi militari. A partire dalla presidenza di Olusegun Obasanjo nel 1999, però, la governance del Paese è sembrata essere meno mutevole.
Oltre alla coesistenza tra diverse etnie presenti sul territorio nigeriano, uno dei problemi principali e tra le cause della grande instabilità politica dello Stato, è rappresentato dalle due confessioni religiose principali e dalla concentrazioni di risorse e potere che crea squilibri e disuguaglianze sociali: l’islam, diffuso soprattutto nel nord (più povero), e il cristianesimo, i cui credenti si concentrano principalmente al sud (più ricco).
Il compromesso sul quale si è retto, seppur in maniera precaria e altalenante, il governo centrale nigeriano, si fonda su un accordo interno al Pdp (People’s Democratic Party), la formazione politica principale dello Stato africano, vincitrice di tutte le elezioni dal 1999. L’accordo prevede l’alternanza alla carica di presidente tra un rappresentante musulmano e uno cristiano ogni due mandati elettorali.
In occasione delle elezioni del 2011, però, l’ex vice-presidente Jonathan, cristiano del sud, portò avanti con tenacia la sua candidatura, nonostante la carica spettasse fino al 2015 ad un rappresentante musulmano.
I risultati delle politiche del 2011 hanno mostrato la profonda divisione tra le due confessioni più diffuse in Nigeria, Jonathan si è aggiudicato la vittoria solo grazie a percentuali bulgare raggiunte nel sud del Paese, mentre nel nord non è riuscito a conquistare la maggioranza in nessuna regione. All’indomani delle elezioni, le azioni di Boko Haram si sono intensificate, come spiega bene anche Davide Matteucci su Limes , trovando terreno fertile nel malcontento delle popolazioni settentrionali, il cui peso politico è stato notevolmente ridimensionato.
Il governo, dal canto suo, non ha mai dimostrato di voler affrontare i problemi del nord con una serie di politiche volte al miglioramento delle condizioni di vita e ha risposto con una dura repressione agli attentati di Boko Haram, alimentando la spirale di violenza.
Il caso delle oltre 200 ragazze rapite è solo l’ultimo di una lunga serie di azioni terroristiche di Boko Haram. Già nello scorso febbraio, infatti, il Country Director di ActionAid Nigeria Hussaini Abdu aveva denunciato la morte di oltre cento studenti a seguito di differenti attacchi a scuole nel nordest della nazione. A detta di Abdu anche il governo, a tutti i livelli, ha gravi responsabilità sul caso in quanto «È loro dovere proteggere la vita e l’educazione dei bambini».
ActionAid Italia, che ha aderito e sta sostenendo con forza la campagna #bringbackourgirls, è presente in Nigeria dal 2006 e lavora con le comunità più povere ed emarginate del Paese attraverso organizzazioni locali impegnate a individuare i problemi e migliorare la qualità della vita.
Garantire il diritto allo studio è tra le priorità dell’organizzazione, specie in un Paese come quello africano, dove oggi più di dieci milioni di bambini non vanno a scuola, un numero maggiore rispetto a quello registrato nel 1999. Il tasso di analfabetismo è maggiore nelle regioni settentrionali, dove più di due terzi delle ragazze tra i quindici e diciannove anni non sa leggere, solo il 3 per cento completa la scuola secondaria e più della metà si sposa a soli sedici anni.
ActionAid lavora per garantire la presenza scolastica di bambini e bambine mediante l’apertura di nuovi istituti, promuove l’alfabetizzazione degli adulti attraverso corsi, in orari flessibili, nei quali hanno la possibilità di imparare a leggere e scrivere oltre a poter discutere di problemi comuni e possibili. Promuove corsi di formazione professionale rivolti ai giovani per creare nuove opportunità di lavoro alternative all’agricoltura.