Baluardi etici.
Questo post non è per gli amanti del politicamente corretto.
Putin è uno che ci sa fare. Ha sagacia, fiuto politico e nelle finte ha un talento degno del Rivera dei tempi d’oro. La sua forza si basa un paese dalla superficie immensa (11 fusi orario), dal possesso di un’immane quantità di materie prime e da un arsenale militare e bellico ereditato dalla passata esperienza sovietica.
In questi momenti quanto mai tribolati emergono però due ulteriori elementi in grado rendere Putin, e tutta la Federazione Russa, ancor più competitivi sul fronte internazionale.
-In primo luogo la continuità politico-istituzionale dello stato russo che, basandosi su una “democrazia formale”, consente alla classe dirigente del paese di permanere al potere indipendentemente da tutti i passaggi elettorali tipici delle democrazie competitive. Un punto di forza caratteristico, come aveva acutamente colto Reagan, già dell’Unione Sovietica. Come non vedere del resto nella diarchia Putin-Medvedev dinamiche tipiche di quando a Mosca si governava attraverso una “troika” (segretario del partito, capo dello stato e capo del governo)? E come non cogliere similitudini tra l’eterno Lavrov e il prode Gromyko, a capo della diplomazia del Cremlino dal 1957 al 1985? Tutti elementi che consentono di portare avanti una “programmazione politica” estranea a qualsiasi tipo di ricambio di governo.
-In secondo luogo la leadership putiniana è una leadership forte in quanto di tipo “etico”. Varie volte abbiamo analizzato quanto lo spirito di potenza russo si basi sui tre elementi del panslavismo (Russia paese guida del popolo slavo), pan-ortodossismo (Mosca come centro della chiesa ortodossa mondiale in quanto sede del più importante patriarcato del globo) e spirito imperiale (Mosca come Terza Roma ed erede dell’Impero Bizantino). La stessa politica estera dell’Unione Sovietica, seppur sotto la patina del socialismo reale e della bandiera rossa, non si discostava da queste tre direttrici principali come ben evidenziano i proclami staliniani (in omaggio ad Alexander Nevski) all’avvio dell’Operazione Barbarossa o la dottrina della sovranità limitata di brezneviana memoria.
Una leadership etica tende a rafforzarsi se non hai principali competitor all’orizzonte e se i tuoi avversari non sono in grado di galvanizzare le truppe con messaggi altrettanto potenti seppur di segno opposto. Nella vicenda ucraina la voce dell’Europa è del tutto assente e quella statunitense ricalca quella di una forza incapace di ripensarsi in un modo sempre più multipolare e interdipendente. La forza della Russia dunque è conseguente la debolezze dei suoi principali competitor.
I valori di democrazia di libertà e democrazia degli Stati Uniti sono di una forza immensa, ma di fronte ad un messaggio millenario e messianico come quello di Putin non sembrano assumere per niente caratteristiche sacre.
Alla luce di questa situazioni emergono due punti non scontati che dovrebbero far riflettere gran parte dell’opinione pubblica:
-In primo luogo emerge un tema legato alla Chiesa Cattolica. Inutile girarci intorno: la forza di Putin è tale per motivi strettamente religiosi: la Chiesa Ortodossa rigetta il principio secondo bisogna lasciare “a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. In Russia vige una forma di cesaropapismo quanto mai lontano dall’impostazione formalmente laica del cattolicesimo. In questo senso colpisce come un Pontefice molto popolare come Papa Francesco abbia dichiarato su tutto, per ultimo sulla tragedia aerea del boeing malese, ma non sulla vicenda della Crimea (pur essendo la chiesa cattolica ucraina una grande supporter di Piazza Majdan). E’ come se l’attenzione esclusiva alla “sostanza” tipica di Francesco lo allontani dalla “forma” rappresentata dalla struttura della Chiesa Cattolica. Che forse (forse) dovrebbe vedere l’atteggiamento moscovita come insidioso se non proprio dannoso per la propria causa.
-Avendo considerato dunque che la Chiesa Cattolica (dunque un potere in grado di lanciare un messaggio dall’impatto forte quanto quello moscovita) pensa ad altro, sorge una domanda: quale potrebbe essere, anche solo dal punto di vista simbolico, un “baluardo etico” al discorso putiniano? Non ci si riferisce dunque ad una semplice politica di potenza, ma ad un messaggio storico in grado di aver un impatto morale e non materiale forte quanto quello moscovita. E da questo punto di vista c’è solo uno stato che negli ultimi anni sembra aver assunto dei connotati “alla russa” seppur in senso del tutto opposto: stiamo parlando di Israele.
Israele come la Russia mette al centro del proprio agire politico un discorso di tipo religioso (l’approccio alla laicità dello stato d’Israele tra l’altro per motivi di tipo consuetudinario, e non dottrinali, non si discosta molto da quello dei paesi di religione ortodossa). Ma soprattutto imposta la sua politica internazionale, con tutti i contraccolpi del caso, sulla base che il messaggio sionista esisterà sempre e comunque. Passano i governi e gli uomini, ma esisterà sempre l’ebraismo.
Inutile dire che Israele, oltre ad una rispettabile forza militare, dispone di asset strategici (la presenza di “propri esponenti” in ogni parte del mondo) ed è senz’altro ancorata al blocco occidentale alternativo alla Russia. Anzi, nella partita mediorientale gli interessi russi ed israeliani sono forti e diametralmente opposti (tranne nella partita siriana: dove Israele ha interesse a mantenere al governo una famiglia di ceppo alauita in grado di arginare il potere dei sunniti nella loro egemonia nei pressi del confine del Golan).
Il paradosso, etico prima che politico, di questa controversia internazionale è dunque quello che si torna alle origini. Puntare a “Gerusalemme” e per rispondere a “Roma”.