Steve McQueen e Michael Fassbender, insieme, sono quella che si dice un’accoppiata vincente e lo dimostrano sin da Hunger – con il quale il regista vinse la Caméra d’or per la migliore opera prima del 61° festival di Cannes – aggiudicandosi, con 12 anni schiavo, il premio Oscar per il miglior film.
La pellicola è ispirata alla storia vera di Solomon Northup (interpretato da Chiwetel Ejiofor) un violinista di colore che, con l’inganno, arriva in Lousiana, viene venduto come schiavo sotto falso nome e perde, oltre all’identità, la dignità di uomo libero.
Come in ogni suo film Steve McQueen è crudo e rappresenta la vicenda con un realismo perforante; in sala c’è chi si copre gli occhi davanti alle immagini che raffigurano la carne viva e i solchi che la frusta ha scavato sulle schiene. Affrontare il tema del razzismo e della schiavitù non era semplice, ma il regista riesce a non cadere mai nella banalità e impressiona lo spettatore con grande abilità.
Lupita Nyong’o, che vince l’Oscar come migliore attrice non protagonista, interpreta in maniera sublime la femminilità che si fa oggetto di attenzioni morbose, la sottomissione che non perde mai il contegno, la ribellione nascosta dietro una mansuetudine commovente. Sembra non avere età ma ha 31 anni, mentre Patsey, il personaggio, è una giovanissima schiava che viene violentata, sessualmente e mentalmente, dal proprietario Edwin Epps – Micheal Fassbender.
Anche al centro di questo film, come negli altri, il regista mette il corpo. La bellezza del corpo, la sua sofferenza, il suo godimento, la sua martirizzazione.
Di una scena si è tanto parlato: il collo di Solomon è legato a una corda che pende da un albero, lui quasi non tocca terra se non con le punte che scavano per cercare l’equilibrio. Dalla bocca esce il sibilo di chi sta per morire soffocato. Intorno i bambini giocano, gli schiavi lavorano, c’è chi non vede e chi invece chiude gli occhi per non vedere. Questa indifferenza simbolica rappresenta la nota più alta della denuncia.
12 anni schiavo ha uno stile più tradizionale rispetto ad Hunger o a Shame, dove invece McQueen fa di ogni inquadratura un’opera d’arte. Il regista passa da una minuziosa ricerca estetica e sperimentale a una canonizzazione, probabilmente perché la necessità è quella di parlare a un più ampio pubblico.
La sceneggiatura risulta talvolta incisiva e capace di dar voce all’indifferenza, alla sopraffazione spietata e alla rassegnazione – “dopo aver mangiato e riposato avrai già dimenticato i tuoi figli” dice una schiava ad un’altra che è appena giunta alla piantagione dopo essere stata divisa dai suoi due bambini. Altre volte appare didascalica tanto che qualcuno si sorprende per la vittoria agli Oscar come miglior sceneggiatura non originale.
Curiosamente il poster Italiano del film consiste in una gigantografia del bel viso di Brad Pitt, il quale ha un ruolo assai marginale e appare per pochi minuti con un’interpretazione fredda e inespressiva. Di tale gaffe – tutta a scapito del protagonista – si è molto parlato negli USA sino a tacciare gli Italiani di provincialismo.
Nonostante il film sia ispirato a una storia vera, gli sceneggiatori si sono presi alcune licenze per semplificare la trama o per caratterizzare i personaggi, talvolta a rischio di renderli eccessivamente stereotipati. Non c’è traccia, nell’autobiografia, della scena in cui Patsey sorseggia del tè con un’altra donna di colore (Alfre Woodard) che versa in condizioni privilegiate, poiché moglie di un proprietario di piantagione. Così Edwin Epps risulta più crudele nell’autobiografia che nella sceneggiatura. Pare inoltre che la moglie di Epps, per gelosia, cercò di convincere lo stesso Solomon a uccidere Patsey, la schiava prediletta del padrone. Nella sceneggiatura è invece Patsey stessa che prega Solomon di aiutarla a morire, richiesta che non appare come una rassegnazione, ma come una ribellione, l’unica possibile.
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