Facebook ha pagato una società di pubbliche relazioni per screditare i suoi critici (associazioni, attivisti e aziende rivali), additandoli come esecutori di un complotto ai danni della compagnia ordito dal magnate ungherese George Soros.
A rivelarlo è una lunga inchiesta pubblicata dal New York Times, che fa luce anche sulla capillare attività di lobbying messa in piedi dall’azienda di Mark Zuckerberg per ingraziarsi politici democratici e repubblicani e spingere per l’approvazione di leggi in proprio favore.
Se quest’ultimo aspetto può risultare tutto sommato normale nella dialettica tra politica e multinazionali, specie negli Stati Uniti, la diffusione di teorie cospirazioniste e il dossieraggio ai danni degli oppositori sono invece inquietanti e gettano nuove ombre sul social di Zuckerberg.
L’inchiesta del New York Times si basa su rivelazioni di 50 tra dirigenti, dipendenti (ex e attuali) dell’azienda, lobbisti, politici, funzionari governativi.
Come ha ricostruito il quotidiano statunitense, Facebook ha tentato di ripulire la sua immagine dopo i numerosi scandali che l’hanno colpita, dal caso Cambridge Analytica alla proliferazione di contenuti d’odio sulla piattaforma, fino alle accuse di essersi messo alla mercè dei troll russi influenzando le principali elezioni in Occidente, a partire da quelle statunitensi del 2016.
Pressata da sinistra come da destra (i Repubblicani hanno spesso accusato il social di oscurare contenuti di siti conservatori attraverso i suoi algoritmi), Facebook ha commissionato questa opera di repulisti a Definers Public Affairs, una società di consulenza con base a Washington e distaccamenti nella Silicon Valley.
Definers ha ottemperato con zelo al compito assegnatogli da Zuckerberg e dalla direttrice operativa Sheryl Sandberg, mettendo in campo strategie aggressive e al limite della legalità per denigrare non solo gli oppositori di Facebook, ma anche i suoi competitor.
La società, ad esempio, ha diffuso report negativi su altri giganti del web come Google e Apple, spingendo per la pubblicazione di articoli che distogliessero l’attenzione dai problemi di Facebook.
Alcuni di questi contenuti sono stati pubblicati NTKNetwork.com, un sito web gestito dalla stessa Definers. Le storie diffuse da NTK Network sono poi state spesso rilanciate da siti ultraconservatori come Breitbart.
Ma c’è di più: questa società di consulenza ha tentato a più riprese di tracciare una connessione tra George Soros e le organizzazioni e gli attivisti più critici nei confronti di Facebook.
Un’associazione chiamata Freedom from Facebook, fortemente ostile al social di Zuckerberg, è stata fatta passare come anti-semita attraverso un’azione di lobbying orchestrata da Definers e che ha coinvolto anche la Anti-Defamation League, una delle principali organizzazioni ebraiche per i diritti civili negli Stati Uniti.
Siti e politici conservatori hanno immediatamente cavalcato la cosa, accusando Freedom from Facebook di essere un pericoloso gruppo estremista anti-israeliano.
Definers, inoltre, ha spinto i giornalisti a esplorare presunti legami finanziari tra George Soros e alcune associazioni che fanno parte di Freedom from Facebook, come ad esempio Color of Change, un’organizzazione che si occupa di combattere l’odio razziale e che ha messo in luce la negligenza di Facebook nel contrastare il fenomeno.
Intervistato dal Guardian in merito all’inchiesta del New York Times, il direttore esecutivo di Color of Change Rashad Robinson ha dichiarato: “È un’operazione razzista mettere in giro la voce che le nostre idee siano in qualche modo orchestrate da un burattinaio (Soros, ndr). Che Facebook impieghi una società vicina alla destra per diffondere queste voci è poi a dir poco preoccupante”.
Le teorie cospirazioniste su Soros non sono una novità: la sua Open Society Foundation è considerata da molti una potentissima macchina in grado di “oliare” i processi politici globali indirizzandoli verso l’apertura dei confini, il liberismo, il dominio della società aperta e delle élite politico-finanziarie.
Soros è diventato, nel corso degli anni, il bersaglio privilegiato dei complottisti: è stato accusato di aver orchestrato rivolte in tutto il mondo, dalle primavere arabe all’Ucraina, passando per le proteste dei movimenti femminisiti e delle comunità afroamericane negli Stati Uniti.
Teorie complottiste veicolate da una galassia di siti, media e associazioni in gran parte riconducibili a partiti di destra, negli Stati Uniti e non solo.
Ciò spiega perché Facebook abbia cercato di cavalcare quest’onda cospirazionista. L’obiettivo era (ed è) duplice: fermare la marea montante di critiche provenienti soprattutto da sinistra, e cercare al contempo preziose sponde tra i repubblicani, in una fase in cui la politica sta tentando di imporre regole sempre più stringenti alle grandi compagnie digitali.
La stretta legislativa sui giganti del web
L’inchiesta del New York Times rivela anche come Facebook abbia utilizzato parlamentari democratici e repubblicani in qualche modo collegati all’azienda per ripulire la propria immagine all’interno dei palazzi del potere nonché, soprattutto, per avere voce in capitolo nella formulazione delle leggi che la riguardano.
Come abbiamo già evidenziato in questo articolo, infatti, è in corso un’offensiva politica globale per limitare lo strapotere monopolistico dei giganti del web.
Da più parti, come sintetizza questo articolo del The Guardian, si ritiene che sia ormai necessario spacchettare le grandi compagnie che, attraverso progressive fusioni, hanno occupato porzioni di mercato sempre maggiori diventando esse stesse il mercato.
L’esempio più eclatante è ovviamente proprio quello di Facebook: in questo caso, come ha scritto anche Agi, la soluzione potrebbe essere quella di costringere la società di Zuckerberg a “liberarsi” delle compagnie che ha in pancia come Instagram e Whatsapp, che diventerebbero aziende autonome in grado di competere sul mercato.
Come spiega un articolo di Politico.eu, per reagire a quest’offensiva della politica, Facebook, Google e Amazon hanno deciso di cambiare strategia.
Dopo aver sostenuto per anni il dogma secondo cui l’autoregolamentazione era l’unico modo per avere un diretto controllo sul settore, ora lobbisti e dirigenti di queste società stanno diffondendo alle autorità e alle istituzioni politiche un messaggio diverso: le regole per il settore digitale sono una buona cosa, a patto che le stesse società possano giocare un ruolo cruciale nella definizione di quelle stesse regole.
Va inquadrato (anche) in quest’ottica l’ingresso in Facebook di Nick Clegg, ex vicepremier ed ex leader del partito liberaldemocratico, come nuovo capo degli affari globali e delle comunicazioni.
Ciò che è cambiato, rispetto al passato, è che le grandi compagnie digitali ora cercano di fare lobby dall’interno, preso atto dell’impossibilità di tenere la politica al di fuori dei propri affari.
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