Come cambia l’operatività del Gruppo Menarini, leader italiano del settore pharma, dopo l’acquisizione della statunitense Stemline Therapeutics e la scelta di costruire in Italia un nuovo impianto da 40.000 mq, investendovi ben 140 milioni di euro?
TPI ne ha parlato con Pio Mei, direttore generale del Gruppo Menarini, il quale ha delineato un quadro di possibile ritorno alla normalità nei prossimi mesi, con l’azienda sempre più focalizzata nel difficile equilibrio che le consente di crescere in campo internazionale, come si conviene a una multinazionale, pur rimanendo molto legata al proprio Paese, al quale non fa mancare il proprio sostegno in questa fase ricca di incertezze.
“L’acquisizione di Stemline Therapeutics ha una duplice valenza: ci consente di aumentare la nostra presenza nel settore dell’oncologia, nel quale stavamo lavorando in termini di R&D e con accordi di licenza, e di entrare nel settore farmaceutico degli Stati Uniti, che è il più grande del mondo. Per quanto riguarda la farmaceutica, il nostro primo ingresso nell’oncologia è il prodotto di Stemline ELZONRIS, una terapia innovativa lanciata per il trattamento della neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche e già in commercio negli USA. Ciò rappresenta la base sulla quale sviluppare tutta l’area oncologica. Sul piano territoriale, finora negli USA eravamo presenti solo con la diagnostica innovativa. Adesso abbiamo anche un farmaco per un settore dalle elevate medical needs e con indicazioni serie, gravi, di nicchia”, spiega Mei.
Quale sarà la direzione del Gruppo Menarini nei prossimi anni?
L’oncologia nel medio-lungo termine rappresenterà una parte importante delle nostre attività. Abbiamo investito molto negli ultimi dieci anni per creare delle opportunità. Oggi però il nostro fatturato, intorno ai 3,8 miliardi, è basato principalmente su quello che noi chiamiamo “business tradizionale”. Spesso alle attività indicate da questo termine si tende a dare un’importanza secondaria, ma i nostri farmaci permettono di curare milioni di pazienti in tutto il mondo. Si tratta di patologie che al momento hanno medical needs ridotti, ma solo perché è stato possibile fornire tutti i prodotti necessari, come ad esempio per l’ipertensione. Da settembre mi aspetto che si torni a una sorta di normalità: si continueranno a usare strumenti da remoto, ma la maggior parte dei pazienti verrà gestita nel contatto diretto, come accadeva prima della pandemia.
Sul piano economico, quali sono le aspettative legate alla vostra espansione?
Non abbiamo ancora definito un piano quinquennale. Abbiamo ovviamente i numeri degli USA, dove fatturiamo 40 milioni di dollari, ma quella è solo una parte delle nostre aspettative: come lei sa, i farmaci oncologici vengono resi disponibili con una indicazione, ma poi tipicamente se ne sviluppano anche altre. Nel caso specifico di ELZONRIS, si è partiti con un’indicazione importante, ma ce ne sono già altre tre sulle quali sta lavorando il reparto Sviluppo Clinico e speriamo che possano essere disponibili nei prossimi anni. Inoltre, il prodotto è in fase di registrazione anche in Europa, quindi ci aspettiamo che nell’arco di 12/18 mesi possa arrivare anche qui. Avendo una presenza molto capillare nel Vecchio Continente, la prospettiva di sviluppare l’attività oncologica è decisamente interessante. In seguito ragioneremo anche sui Paesi asiatici, per i quali abbiamo già dei progetti in fase di valutazione. Il processo tradizionale per un farmaco che origina dagli USA consiste nell’arrivare in Europa e poi anche in Asia. La tappa più vicina, sulla quale poniamo molte aspettative, è proprio quella europea.
Come si coniuga questa crescita internazionale con la scelta dell’Italia come location del vostro nuovo impianto?
Abbiamo valutato attentamente tutti gli aspetti economico-politici di vari altri Paesi, ma alla fine abbiamo scelto l’Italia per quella che, come hanno già spiegato gli azionisti, è stata una vera e propria scelta di cuore e di tradizione. Menarini ha sempre dimostrato di avere un legame fortissimo con il proprio Paese. Non ci sono mai state delocalizzazioni significative perché pensiamo che l’Italia debba rimanere il fulcro del nostro gruppo. La politica deve recepire questo nostro messaggio: in un momento di crisi economica nel quale si cerca il rilancio nazionale, Menarini ha scelto di investire in Italia. Questa scelta avrà dei riflessi sull’occupazione, anche nell’indotto e nella filiera, a partire dalla costruzione dell’impianto. Credo che questo sia uno dei segnali più importanti dal punto di vista imprenditoriale e politico che Menarini potesse dare: crediamo nell’Italia. Il nuovo magazzino sarà impostato in maniera modulare, così da permettere il raddoppio della produzione-standard in caso di necessità. L’oncologia è vitale per il Gruppo e per le esigenze dei pazienti, ma la produzione tradizionale lo è ancora di più: muoiono più persone per incidenti cardio-vascolari che per patologie tumorali. L’investimento su questo nuovo stabilimento si inserisce nel solco dell’intenzione di mantenere equilibrio tra l’oncologia e gli altri settori nei quali già fornivamo le cure per milioni di pazienti. Altrettanto importante è continuare a dare informazioni ai medici, consentendo loro di poter usare al meglio i farmaci per il trattamento dei pazienti.
Come mai non avete fatto ricorso alla cassa integrazione, nonostante i problemi derivanti dal lockdown?
Abbiamo preso questa decisione per riguardo nei confronti dei nostri dipendenti e dello Stato. La Cig copre solo parzialmente le entrate dei lavoratori e, siccome tutti hanno sofferto la crisi sanitaria, non volevamo che le nostre persone la soffrissero due volte. Per quanto riguarda lo Stato, in momenti difficili come questi ci sono molte aziende che fanno ricorso agli ammortizzatori sociali, con un forte aggravio sui costi pubblici. Rinunciarvi è stato un altro modo con il quale abbiamo voluto contribuire all’economia del Paese e, considerando anche il contemporaneo investimento sullo stabilimento, si è trattato di un segnale davvero unico nel panorama industriale.
Menarini è a tutti gli effetti una multinazionale (e lo è sempre di più), ma conserva uno stile gestionale di tipo familiare, visto che in effetti la proprietà è della famiglia Aleotti. Come si fa a gestire un’azienda conciliando queste due realtà così distanti tra loro?
La sua considerazione è corretta. Con oltre 17.000 dipendenti e una presenza allargata a 140 Paesi, abbiamo policy e procedure idonee per gestire una realtà molto complessa come quella di una multinazionale. D’altra parte la famiglia Aleotti è presente nel lavoro di tutti i giorni e questo ci aiuta a mantenere un tipo di approccio nel quale azienda e dipendenti siano la stessa cosa. Siamo un’azienda di persone, non di pedine: ognuno di noi sa di svolgere un ruolo importante. Il fatto di non essere quotati in Borsa ci consente di non essere costretti a fornire risultati con cadenza trimestrale, quindi possiamo impostare dei programmi a lungo termine, per garantire il futuro dell’azienda e dei suoi dipendenti.
Mi ha colpito il fatto che lei abbia spesso usato la parola “politico” nel corso di questa intervista. Glielo dico perché sono profondamente convinto del fatto che anche le aziende svolgano un ruolo politico, specialmente se sono di grandi dimensioni come la vostra e in momenti difficili come questo. Lei cosa ne pensa?
Forse l’espressione “ruolo socio-economico” è più calzante di “ruolo politico”, però, in questo senso, è proprio così. Attraverso la donazione di gel igienizzante alla Protezione Civile e ad altri soggetti, nonché con le donazioni, abbiamo dato un contributo diretto alla collettività. Credo però che vada riconosciuto anche il ruolo di Menarini nell’ambito di un’economia nazionale in grande crisi. Su questo abbiamo fatto veramente il massimo. Il settore farmaceutico italiano in generale esporta molto e noi in particolare moltissimo. Lo faremo ancora di più quando il nuovo stabilimento sarà in funzione. Quello che facciamo non può dirsi esattamente “politica”, semmai “politica economica”, ma certamente dobbiamo giocare il nostro ruolo sociale ed economico per il Paese. Il nostro messaggio per la politica è l’invito a non considerare la medicina solo come una spesa a cui fare fronte, bensì come un fattore che dà un impulso importante all’economia. Ciò vale specialmente in momenti come questo, ma non solo.
Dal punto di vista di una multinazionale che opera su vari scenari locali, è d’accordo con chi dice che il sistema sanitario italiano sia tra i migliori al mondo?
Sì, lo è, sebbene con degli aspetti da ripensare. Penso alla regionalizzazione, che parcellizza il servizio e crea differenze tra le diverse offerte ai cittadini delle varie regioni. L’altro aspetto rivedibile riguarda la visione che punta al risultato annuale, perché la sanità si gestisce con piani a medio e lungo termine. Pertanto nella gestione delle spese vanno considerati anche i ritorni. Oggi pesano come costo, ma oltre a migliorare la vita delle persone – cosa che per un politico dovrebbe essere l’obiettivo numero uno – esse hanno anche un ritorno economico nel tempo. D’altra parte, è evidente che, continuando a fare il famoso Documento di Programmazione Economico-Finanziaria su base annua, si sia necessariamente legati a far tornare i conti ogni anno. Questi ragionamenti di breve termine, oltre alla pressione dall’Europa, rendono complessa la gestione della sanità. Comprimere la spesa di oggi rischia di far aumentare quella di domani.